Capacità, disciplina, entusiasmo

Cosa può spingere gli uomini nel mondo sotterraneo delle tenebre, dove per godere di uno scenario scultoreo naturale occorre prima strisciare come vermi nel fango, scorticarsi le mani e il corpo tra le rocce, vincere la claustrofobia e una naturale repulsione per il buio e... per i pipistrelli?
Se riflettiamo che la parola uomo deriva da humus, si può pensare che gli speleologi o cavernicoli, o grottaioli, o alpinisti a rovescio, come qua e là vengono chiamati, debbono ubbidire inconsapevolmente al richiamo della terra dalla quale provengono, quando si addentrano nelle grotte. Solo in questo senso forse, ben più che con spiegazioni di indole scientifica, può interpretarsi la passione che in ogni parte del mondo, fatto singolarissimo del nostro secolo, spinge sotto terra sempre più fitte schiere di giovani e di non più giovani. Un’altra interpretazione che può darsi, della vocazione ipogea, è quella del desiderio di evasione dal mondo macchinoso della nostra civiltà tecnologica.

Federico Ventura con Bruno Piredda e alcuni giovani del gruppo

Ricordo con gioia quando nel luglio del 1955, unitamente ad un ristretto gruppo di giovani studenti di Nuoro, mi recai ad effettuare non la prima esplorazione, ma una spedizione tutta particolare, atta a vagliare le capacità, la disciplina e l’entusiasmo di questi giovani in grotta. Già prima della partenza spiegai loro che la buona riuscita di un’impresa dipende sempre da tre fattori: preparazione perfetta, buona esecuzione, disciplina rigorosa. Si era nella valle di Lanaittu. Una breve marcia ci condusse alla vecchia dispensa (casetta ora semidistrutta) quasi all’imboccatura della grotta Sa Oche e non distante che alcune centinaia di metri dalla grotta su Bentu.

Dino Giacobbe, Presidente del Gruppo Grotte Nuorese, mi affidò l’incarico di installare all’interno le scale e le funi per i vari passaggi sino al Campo Base Ventura, ove avremmo dovuto bivaccare. Con me vennero Tonino Pintori, Giovannino Murgia e i fratelli Macciotta.
I vari preparativi richiesero parecchio tempo, soprattutto perché era mio intendimento che questi giovani partecipassero anche al modo di scegliere il materiale necessario, confezionare i viveri, legare le funi e le scale e suddividere, poi il tutto fra i vari partecipanti.

Dopo aver controllato le singole acetilene. prelevato il carburo ed ogni altra cosa, alle 17 circa di quel lontano sabato del 1955 si partì. Il descrivere l’entusiasmo e, direi ancora, l’orgoglio di questi giovani mi è impossibile: ma, guardandoli di sott’occhi mentre ci accingevamo a varcare l’ingresso della mastodontica grotta di Su Bentu, il mio cuore si riempì di una strana gioia. Pensai di aver conquistato al Gruppo Grotte altri elementi che, sicuramente, avrebbero dato soddisfazioni grandissime.
Oggi, a distanza di tempo, posso affermare di non essermi ingannato. Una breve pausa dopo circa cinquanta metri dall’ingresso e via carponi nel passaggio propriamente detto ‘Su Bentu’, a causa di una fortissima corrente d’aria che occorre attraversare e che, il più delle volte, spegne le luci delle acetilene. I bagagli venivano sospinti a passa mano, con delicatezza ed attenzione. Superato questo primo ostacolo ci trovammo su una terrazza che immette, dopo una discesa a strapiombo di circa otto metri, in un vastissimo salone ricco di stalattiti e stalagmiti. Da questa terrazza, i miei giovani osservarono incantati, un numero indefinito di figure (Garibaldi, un orso, dei bellissimi cavoli, etc.). ciascuno vedendo forme diverse per effetto delle luci che noi stessi. dall’alto, proiettavamo. sulle concrezioni. Su questo meraviglioso terrazzo sostammo più del previsto, proprio per appagare di gioia gli occhi di questi giovani. Erano appena le 19. Iniziammo i lavori con uno spezzone di scala da 10 metri ben ancorata ad una robusta stalagmite. Per primo 
scese Pintori; seguito da Nello Macciotta e Giovannino Murgia.
Io e Rino Macciotta provvedemmo, con una apposita fune, a calare il materiale. Dopo mezz’ora eravamo riuniti tutti nel grandioso salone. Qualcuno, appassionato, iniziava già a raccogliere entro flaconi di vetro contenenti alcool e soluzione in formalina degli esemplari di anfibi completamente ciechi; altri scattavano fotografie; altri rimettevano in ordine i bagagli. Notai l’entusiasmo con cui tutti i giovani lavoravano e ne godetti immensamente. Alle 20 circa riprendemmo la marcia, decisi a bivaccare entro la grotta. Nessuna preoccupazione, quindi, né del tramonto né dell’alba... in grotta si è sempre al buio. Dopo circa un’ora di marcia, superato lo scivolo Margherita, un budello gelido per la corrente d’aria (Secondo vento), ed un pozzo di 16 metri, arrivammo nel cosiddetto Caos o zona
dei laghetti. Il trasporto dei bagagli, in questo punto, divenne estremamente difficile e ci occorsero quasi due ore per poter dire fine ai disagi e iniziare l’allestimento di due dei tre battelli o nostra disposizione.
Sul primo battello sistemammo quasi tutto il materiale necessario. A questo punto mi fu chiesto: perché preparare due soli battelli per cinque persone e tutto i materiale? La mia risposta fu pronta e concisa: Pintori avrebbe dovuto prelevare campioni di roccia con fossili e rientrare alla base esterna per sistemarli; mentre gli altri quattro avrebbero proseguito il viaggio, Tonino, senza mostrare disappunto, ubbidiente come al solito, iniziò il suo lavoro prima che noi salpassimo. Avevo già programmato nella mia mente tale condotta, proprio per constatare la disciplina ed il coraggio dei singoli. Noi proseguimmo il viaggio, raggiungemmo il campo Ventura e dormimmo circa cinque o sei ore.
Ci preparammo per il rientro. Alle dieci e trenta eravamo all’ingresso della grotta a rivedere il sole. Giunti al campo base il caro Pintori si precipitò da me ansioso di farmi vedere i campioni prelevati che aveva meticolosamente lavato, pulito ed asciugato ai primi raggi del sole. Diedi un’occhiata distratta e gli dissi di buttar via tutto. Erano oltre 20 Kg di materiale: schegge di nessun valore. Lo vidi impallidire e senza batter ciglio mi disse: "E pensare che ho sudato come un matto per portare sin qui questo materiale che ritenevo importante ed utile".
Lo ammirai dicendogli."tu sei già maturo per essere un vero speleologico".

Fu contentissimo, come del resto lo furono anche gli altri ed io in particolare.

 
FEDERICO VENTURA
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