Neospeleologia in Sardegna
PRIMA ESPLORAZIONE NELLA GROTTA “SA OCHE” - OLIENA
La prima attività speleologica di esplorazione sistematica delle grotte in Sardegna, per quanto mi risulti, risale al 1939. ed ebbe come obiettivo principale la grotta di "Sa Oche", nella valle di Lanaittu (Oliena), anche se l’idea prima sulla necessità di costruire in Sardegna una organizzazione speleologica nacque più tardi, negli U.S.A.
Sono stato protagonista di entrambi gli eventi e, sebbene contrario alle trattazioni di carattere personale, occorre che io ne parli, almeno per dovere di cronaca.
Fu, infatti nel 1939 che ebbi modo di raggiungere, per la prima volta, la valle di Lanaittu, dove mio padre conduceva imponenti lavori boschivi. La magnificenza della valle, infossata e celata fra quelle superbe montagne, e il grande antro cavernoso della grotta di "Sa Oche" e quello di "Su Bentu" furono le prime cose che, con il loro fascino, suscitarono in me una sensazione assolutamente inedita.
Lo vallata, pur ricca di una folto e robusta vegetazione, era in superficie aridissima. L'unica risorsa d'acqua utile per i pastori della zona e per gli oltre 500 operai dell'industria boschiva, giaceva, limpida e fresca, entro la grotta di "Sa Oche". II dispensiere, ziu Portolu Anzellu, dopo avermi cortesemente ospitato nella sua robusta baracca di grossi tronchi di leccio squadrati, volle subito condurmi a dissetarmi nel grande serbatoio naturale. Prelevammo due barili d'acqua. Mi accorsi di non averne assaggiato neppure un sorso solamente quando, usciti all'esterno, mi si ravvivò la sete.
Di fronte al gigantesco ingresso, simile ad un’enorme fauce della montagna, mi soffermai sbigottito. La mia mente mi riportò il ricordo dell’illustrazione vista in qualche testo scolastico di una terrificante immagine dell'inferno dantesco. In tale sbigottimento, mi parve persino di leggere, sull'alta parete rocciosa strapiombante, la scritta: "Per me si va nella città dolente... "
Superato l’ingresso, e giunto in una prima zona buia e scoscesa, trovai però coraggio in un'altra reminiscenza dello stesso poeta: "Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza". Mi riavvicinai a ziu Portolu per inoltrarci. Giungemmo al limite di un Iaghetto sconfinante, oltre una grande ansa della caverna, nelle oscure e misteriose viscere della montagna. Tra le candide pareti, ogni piccolo rumore riecheggiava in un prolungato brontolio che andava poi gradatamente affievolendosi, lontano lontano. Questo mi diede subito la sensazione dell'enorme vastità della grotta, e suscitò in me il pungente desiderio di percorrere e scoprire quei segreti meandri tenebrosi.
Ad acuire il desiderio di questa avventura concorse poi il racconto di un anziano capraro del luogo, il quale era stato più volte spettatore dell’improvvisa e violenta fuoriuscita delle abbondanti acque di "Sa Oche", in conseguenza delle prolungate piogge che si abbattono, d'autunno e d'inverno, sulle montagne soprastanti. Miste alla paura e alla curiosità, trapelavano dal suo racconto le immagini vivide dell'immane cataclisma, che si annunziava con violenti boati e tremori della montagna: sbuffi violenti di vento sibilanti dalle innumerevoli fenditure della roccia, riecheggianti fra le alte pareti circostanti. Egli esprimeva magistralmente la somma di queste immagini con una sola parola: "trumughine". AI verificarsi del "trumughine", capre, cinghiali, mufloni e ogni altro animale abbandonavano, impauriti, la valle, e si volgevano istintivamente in fuga veloce e disordinata verso la montagna. Poi, l’acqua azzurrina, lattiginosa dapprima per l’aria frammista e compressa tra le alte volte della grotta, arrivava con getto violento ad erompere dall'enorme imboccatura dell’antro, disperdendosi e sommergendo in buona parte il fondo valle.
Nell'inverno del 1939, al sesto giorno di un violento e continuo temporale, fui anch'io testimone di questo gigantesco spettacolo. Ne ricavai la netta sensazione di un evento biblico. Molti buoi, addetti al carriaggio del carbone, che, secondo l’usanza nostrana, erano inanellati all'orecchio con la corda di guida fissata ai carri, impauriti dal "trumughine", cercarono violentemente di liberarsi, ed ebbero l’orecchio mutilato o tremendamente ferito. Riuscirono, comunque, anch'essi a sfuggire all'inondazione, correndo goffamente all’impazzata dietro ai più esperti e agili animali selvatici che popolavano la valle. Questo fenomeno naturale, con la grande perplessità, suscitò in me un grande desiderio di scoprirne e conoscerne le più intime e recondite ragioni.
Disponevo di una buona dose di volontà, e l’ardimento non mi faceva difetto. Tornai più volle, in solitudine, a meditare ai bordi del laghetto di "Sa Oche"; e così piano piano, formulai nella mia mente il primo concreto piano d’azione. Racimolai tutti i mezzi di fortuna che mi fu possibile ottenere tra le disponibilità dell'industria boschiva: due scalette da carbonaio, sette barili ben tappati e impermeabilizzati a catrame, alcune corde per costruire una zattera rudimentale, due tavolette da usare come pagaie, una lampada acetilene, sette candele steariche, una retina da testa per poter infilare tra i capelli una scatola di cerini di emergenza, pane, formaggio, e ancora corde di canapa.
II varo della zattera che ne risultò non fu impresa facile, ma fu infine festeggiata da molti pastori, da numerosi carbonai, e soprattutto da ziu Portolu, cui riusciva tuttavia impossibile giustificare e approvare la mia iniziativa, nonostante avesse prestato tutta la sua collaborazione nei preparativi.
Occorreva ora dotare la zattera di un equipaggio valido. Tra i carbonai, quasi tutti toscani, tra i carriolanti di Oliena e Dorgali, o fra i giovani e pur coraggiosi pastori, non si trovò nessuno che fosse disposto a tenermi compagnia. Dovetti perciò mobilitare la ciurma a Nuoro. Esposi il mio progetto all'amico Cadoni che lo accolse subito con entusiasmo, senza riserve fisiche o mentali, sebbene, come me, si cimentasse per la prima volta in qualità di navigatore sotterraneo.
Non so se Colombo partì con altrettanto entusiasmo alla scoperta dell'America. Abbandonammo le nostre baracche sotto la grande arcata di "Sa Oche", e, scalzi, ci calammo ad occupare gli unici due posti disponibili sulla zattera: Cadoni, più piccolo e leggero di me, sui tre barili della fiancata sinistra, io sui quattro barili dell'altra. Sui sette barili, sette steariche accese; io con l’acetilene a tutto gas, e Cadoni, simile a Caronte, a dar di remi per traghettare la mia anima dannata verso il misterioso inferno di "Sa Oche". Superammo placidamente la prima ansa del laghetto, e sostammo un attimo per misurarne la profondità: 12 metri.
Proseguimmo silenziosi, rapiti dall'esame di una bellezza nuova, immacolata. Si apriva per la prima volta dinanzi a noi, stupefatti, il meraviglioso mondo sotterraneo. Il lago si faceva più largo e più profondo, mentre la volta si abbassava improvvisamente sull'acqua, consentendo a mala pena il passaggio del nostro naviglio, sul quale dovemmo inchinarci. Solo per un breve tratto, poi la grotta riprese nuovamente le sue dimensioni maestose, accentuando la potenza espressiva delle stupende concrezioni biancheggianti. Più avanti una gigantesca concrezione scendeva dalla volta fiancheggiante una parete, limitando dall’altra lo spazio utile al passaggio della zattera. I nostri sforzi per farla passare inclinata su un fianco non valsero a nulla: le punte della colata calcarea si incastravano tra i pioli della scala cui erano fissati i barili, e tutto fu inutile. II tentativo fu rinviato di un giorno.
Durante la lunga notte, oltre a rivedere le belle immagini sotterranee, in sogno, dovetti affrontare la lunga, estenuante fatica del superamento di quel maledetto ed imprevisto ostacolo. II mattino mi alzai presto. Stanco, depresso e quasi sconfitto. Voleva essere quasi un segno premonitore, ma io non ho mai prestato fede ai sogni. Alto, ormai, il sole di mezzodì sulla valle, tornammo alla zattera, Cadoni ed io, nuovamente decisi. Più speranzosi che sicuri del successo. Sistemati nei nostri posti e ripristinate le luci, eccoci di nuovo in navigazione.
Percorriamo appena 20-30 metri: le pareti levigatissime cadono, in quel punto, a picco nel lago senza lasciare alcuna possibilità di appiglio. Ed ecco che un brusco, improvviso sbilanciamento nella distribuzione dei nostri pesi fa rotolare la zattera su se stessa. Ci troviamo nudi, a contatto dell'acqua gelida, unica unione tra noi e la nostra madre terra giacché, oltre alle braccia, anche gli occhi brancolano nel buio più profondo. II mio pensiero più grande è rivolto alla scatola dei cerini, riposta fra i capelli e la retina che li tiene chiusi. L’acetilene è colata a picco. La zattera, certamente scivolata sull'acqua, non deve, però, essersi scostata ai molto. Sento Cadoni borbottare qualcosa di incomprensibile: penserò, più tardi, che volesse tradurre "Pape Satan, Pape Satan Aleppe".
I tenui e misurati colpi di mano sull'acqua mi fanno intendere che egli stia nuotando sicuro e controllato. Mi impongo la calma più assoluta. Cerco di stare a galla in posizione verticale, nuotando con i piedi. Le mani si protendono in giro, alla ricerca dell'unico appiglio possibile: la zattera. Trovo invece una stearica galleggiante. La tengo in bocca per lasciar le mani libere di compiere l’operazione che, sola, può toglierci d'impaccio: frugo tra i capelli che sono ancora miracolosamente asciutti, ne tolgo la scatola di cerini e, sempre nuotando con i piedi, riesco ad accendere il primo cerino.
Lo stoppino bagnato della stearica frigge, ma non si accende. AI terzo cerino, finalmente, prende fuoco. Ho in mano la fiaccola della salvezza.... che illumina uno scenario tragicomico. Noto subito che la via d’uscita si trova proprio dallo parte opposta a quella verso cui avevo pensato di potermi dirigere quando ero al buio. Cadoni, intanto, si è subito afferrato alla zattera e la sospinge verso l’esterno mentre io gli nuoto appresso, tenendo con grande attenzione alto il lume nella mano sinistra. Approdiamo, assicuriamo la zattera alla roccia e ci affrettiamo all’ingresso, con i corpi lividi dal freddo. Sento corrermi lungo l’addome come una miriade di minutissime punture di spillo.
La luce e il tepore dell'esterno ci fanno subito dimenticare le emozioni e le pene appena vissute e lo scoraggiamento per la fallita impresa. Non tutto, però, è perduto. Dalla disavventura la nostra amicizia esce ben rinsaldata; intimamente "concrezionata", per usare un termine squisitamente speleologico.
Nasce cosi il binomio Pi.Ca., al quale si aggiungerà ben presto il Ve.Ve. (Ventura e Verachi). Questo quadrinomio: Pi.Ca. Ve.Ve. porrà poi mano alle prime esplorazioni della grotta "Su Bentu". che vengono bloccate dalla mobilitazione del Settembre 1940.
E' la guerra, che ci sottrae a queste prime iniziative di esplorazione.