Nuoresi delle “Caverne”
Articolo tratto dall’Ortobene del 1995
Non ero presente, mi dispiace, alla commemorazione di Bruno Piredda, a Nuoro, un anno dopo la sua scomparsa. Mi dispiace, perché avrei voluto ascoltare i vecchi amici, sentire che cosa ricordano oggi di Bruno e quanto i loro ricordi, dopo tanti anni, somigliano ai miei. Pare infatti che i congegni della memoria siano diversi, anzi unici, in ciascuno di noi, come sono diversi, dicono il temperamento, il DNA e tutto.
E chi dice di no?
Alla scienza bisogna credere; però, meno male, tra gli esseri umani esistono anche affinità, per cui forse Giuseppe Cadoni e Federico Ventura ricorderanno, per esempio, un giorno caldissimo di agosto in cui facemmo ciondolare Bruno Piredda (compare Bruno, diceva Cadoni) sopra la Valle di Lanaitto dall’alto del Monte Sa Trugusa. Ci eravamo arrivati carichi di corde, con un cinturone da pompiere e un rotolo di scaletta fatta in casa, troppo corta, come risultò subito, e troppo pesante, l’an a ischire sas palas de Vintura.
Laggiù dal fondovalle, Dino e Giannetto Giacobbe, con gesti e con parole che sentivamo lontanissime, cercavano di segnalarci dov’era propriamente il “buco” da esplorare, più a destra, più a sinistra ma più giù, molto più giù, a sinistra, ancora un po', ancora, dato che noi dall’alto non potevamo vederlo.
Mi sembra di ricordare benissimo queste cose, eppure mi domando se non sia stato soltanto un sogno e non stia inventando ora i pompieri, le corde e le scale volanti. Bisogna che ciò qualche volta accada, altrimenti non si capisce perché Giuseppe Cadoni, come apprendiamo dai giornali, ricordi che Piredda era un saggio, era diventato, dice, un vecchio di incredibile saggezza. E perché nessuno di noi è diventato saggio? Ma forse Cadoni scherza, come da giovane, sornione e senza preavviso, recitando serietà come talvolta fanno i sardi in modo insidioso, e chi vuol capire capisca. Bruno infatti aveva molte qualità, e alcune in grado eccezionale, ma la saggezza non saprei; ditemelo voi considerando che a frequentarlo un po' si rischiava di trasferirsi stabilmente nei labirinti del Supramonte o di ritrovarsi aggrappati a qualche rupe vertiginosa nei salti di Urzulè, Oliena, Dorgali.
Una volta, a dolu mannu, capitai con lui su un’alta parete a picco, in libera entrambi, sebbene avessimo una corda, e bloccati da una perfida cengia — da giù non sembrava tanto sporgente — riflettevamo in silenzio. Se fossi un astore, mi rammaricavo io, o almeno un passero! Macché, avevo un corpo di sessanta chili e la gravità mi chiamava. Dal vuoto saliva l’odore sgradevole della fine del mondo. E como, Bru’, ite fachimus? - Abarra, at nau, so’ pompiande si nche podia ghettare francas a cudd’ala.
Non eravamo alpinisti, è ovvio, ma nessuno ignora che l’alpinismo si fa col cervello in ordine, e quando una mano avanza per cercare un nuovo appiglio, la regola vuole che gli altri arti stiano ben fermi, tutti e tre. Bruno invece diede un calcio alla montagna, e librandosi nell’aria con una rotazione a destra di circa cento gradi volò verso una parete vicina, altro che passerotto. Quando si fu issato su una breve cornice vidi che gli sanguinava un dito, ma senza pietà gli dissi di sbrigarsi, ora passa di sopra e gettami la corda.
Si rientrava tardi e stanchi, eppure era difficile dormire. Rigirandomi le abrasioni e le ammaccature, giuravo che mai più. Il sonno poi era attraversato da incubi, cadevo senza speranza, precipito, muoio per sempre, no, si rinvia. Ci voleva un’altra occasione, era inutile, giurare, inutile cadere. Il 19 luglio 1952, un sabato mattina — così leggo in un appunto autentico dell’epoca — partimmo da Nuoro col camioncino di Giovanni Virdis: Dino Giacobbe e Giannetto, Giovanni e Sebastiano Maccioni, Italo Piras, Antonio Verachi, Giuseppe Cadoni, Federico Ventura, Michele Columbu, Bruno Piredda. E furono due giorni di buio e di stanchezza. Ma se parliamo di grotte, Lanaitto è la capitale. Ce n’è per tutti i gusti con ampia scelta di celebri insegne: Eliches artas, S’istampu ‘e sas ballas, Su Concu, Vidichinzos, Sa Oche, Su Ventu. E chi le preferisce con implicazioni storiche e archeologiche domandi di Ziu Corbeddu, più avanti, e di Tiscali. Noi no, come obiettivo principale ormai avevamo eletto Su Ventu.
L‘uomo di punta, la guida, l’animatore infaticabile era il suddetto Bruno, che aveva praticato ogni sentiero ancor prima della guerra, come si legge in una sua lettera dall’America, il 25 febbraio 1945, a Dino Giacobbe, pure in America.
Anche il 2 agosto era sabato, però partimmo in pochi e di pomeriggio. L’esplorazione di S’Istampu ‘e sa Trugusa fu un diversivo fuori programma, una scommessa estemporanea fra noi e quel buco solitario e minaccioso. Col camioncino di De Bernardi, l’indomani, sopraggiunsero A. Verachi, I. Pirisi, G. Siotto, M. Pirari, M. Coinu, G. Farina, e ci sorpresero nei dintorni di Sa Oche, alle sei del mattino, noi sonnacchiosi e mogi mogi, io mi facevo la barba, essi allegri come uccelli, e ci sfottono, s’intende, ello in teatru bos azis colau sa notte, però ci offrono del caffè caldo, che Dio li benedica. Il Piredda allora, non tollerando affronti, su una fiammata di cardi come risposta mise un padellone nero con una mostruosa treccia de saccaju gaddighinosu seminascosta nello strutto. Il suo profumo nella valle vinceva quello del caffè.
Procedevamo nelle caverne impetuosi e coraggiosi, con me in preda a non so che spirito di avventura e di furore esplorativo; ma non eravamo ancora speleologi. Gli amici lombardi ai quali riferivo le nostre imprese ci definivano francamente “rampigamuri” (Antipatici), e tutt’al più concedevano che stavamo attraversando una “fase eroica”, della speleologia. Eppure a Su Ventu, con Verachi, Maccioni e Giacobbe (si nono proite sezis inzenieris?) cominciammo a metterla sullo scientifico e a usare bussole e rotelle metriche, mentre Bruno, all’ingresso, fabbricava idrogeno per i palloncini. Nessuno mi crederà, pazienza, ma io di Bruno ricordo anche la chimica, sia pure modesta e casalinga.
Bruno Piredda era anche un cacciatore. Però il sette settembre, in Baronia, fummo bravi solo come cani, perché scovammo un migliaio di pernici e con quaranta colpi ne prendemmo nove. La sera, dopo un faticoso drenaggio dell’imboccatura riuscimmo a infilarci nella Grotta di San Giovanni passando con la barca sotto una roccia che ne aveva sempre impedito l’ingresso. Assieme a Mario Conteddu di Siniscola fummo i primi uomini battezzati che navigarono con l’intento di arrivare a Ispinigoli per quella via. Un’anfora preistorica fa fede di quel nostro viaggio. Quando venimmo fuori, la mattina, l’autista Pietro Piras, noto Berda, faceva colazione con le pernici e piangeva sulla nostra sorte.
Nel ‘54 per fortuna Dino Giacobbe e Francesco Pisano, dopo un lungo e duro esilio a Su Boe Marinu, terminarono il rilevamento di quella grotta clamorosa; e io ebbi l’onore — non senza qualche onere — di darne notizia al IV Congresso della Società Speleologica Italiana, che quell’anno si teneva a Trieste. Così la Sardegna si presentava in Italia tutt’a un tratto e alla grande con una caverna descritta e rilevata per 4.051 metri. La nostra “fase eroica” era superata, e l’anno dopo un contributo della Regione (Assessore G. Mascia) ci permise di ospitare nell’Isola il V Congresso, con sedute a Sassari, a Nuoro, a Cagliari e con escursioni alla Grotta di Nettuno, a Su Boe Mannu, a Su Marmurri.
Ora però chi se ne importa degli scienziati e degli illustri studiosi che nel 1955 studiarono geologia, idrografia, cristallografia, rare stalattiti eccentriche, paleontologia, farfalle e ateros bobborrottos nelle caverne sarde? A me importa solo ricordare, anzi commemorare, che Bruno Piredda quell’anno, molto meglio di me che li avevo accompagnati sul Monte Albo, diede una mano agli speleologi triestini della Società Boegan, quando violarono i “segreti” di Sa Tumba ‘e Nurai e de Nidorra.
Già vado di fretta, ma ora prendo il galoppo e torno al 2 agosto del ‘52, quando mancammo di poco un omicidio. Vi ricordo che Bruno penzolava sulla parete est del Monte Trugusa, aveva già lasciato la scaletta, troppo corta, come pure la fune di sicurezza, troppo corta, e gli restava solo la corda che avevamo fatto passare su un ramo di ginepro un po’ sporgente per evitare il margine affilato della roccia, e il ramo stava cedendo al peso e perciò lo sorreggeva Ventura con la spalla, e ora cedeva anche quella, non ne poteva più, mentre la voce del saggio ciondolante reclamava da sotto un altro metro, allungate, almeno mezzo metro, ma non era possibile perché i nostri pugni roventi serravano fino all’ultimo centimetro la coda di quel filo della sua vita, ebbene, allora il prof. Giuseppe Cadoni, Ispettore scolastico e studioso di problemi pedagogici, volle sapere da me: E a tibe, Miché, ite ti nde paret de sa psicologia isperimentale?
Fu un attentato, intenzionale o preter, ma io e Ventura resistemmo all’urto del riso che dentro ci premeva terribile, e per la nostra resistenza, quella sì eroica, compare Bruno si salvò.
Michele Columbu