La valle di Lanaittu
Tratto da "Gruttas e Nurras"
Un lieve tocco di speroni e giù a galoppo dentro la valle più bella del mondo. Con queste parole un giovane Bruno Piredda puntellava il racconto di una serie di sortite a Lanaittu che lo condussero prima nella grotta di "Sa Oche" e poi tra le braccia di "Su Bentu". A muovere i suoi passi una genuina quanto rara curiosità intellettuale. Sullo sfondo fumarole, capretti, felci antipulci, il bagliore di un acetilene, una decisiva notte lunga tre giorni e la profonda amicizia con Giuseppe Cadoni e Federico Ventura...
Era l'anno 1938. Militavo da Sottotenente allo Squadrone Cavalleggeri di Sardegna di stanza a Cagliari. Durante una breve licenza mi recai a trovare mio padre nella Valle di Lanaittu, racchiusa tra i monti di Oliena e Dorgali, dove dirigeva una grossa industria boschiva. Cavalcavo una vispa cavalla sardo-araba. Era la prima volta che mi affacciavo su quella valle. Mi soffermai a contemplare dal passo di " Su Gurruthone" lo scenario che si apriva davanti ai miei occhi. Cento e più fumarole, sprigionate dalle carbonaie, si levavano verticali, bluastre. Un lieve tocco di speroni e giù a galoppo dentro la valle più bella del mondo.
Mio padre mi accolse con malcelata commozione, lottando a stento con le lacrime. Una moltitudine di operai mi si fece attorno e stringendo a tutti le mani tese mi trovai col guanto, che non mi avevano dato il tempo di togliermi, nero-azzurrino di carbone caldo di umanità. Il dispensiere, Ziu Portolu, come a liberarmi da quelle strette mi introdusse nella dispensa: una squisita zuppa di caldo brodo di mufla e focaccia da poco sfornata; accanto, infilato in un apposito buco del tavolo, un corno ben colmo di ottimo vino di Oliena. [...] Abbondante polenta, farina di grano, sale terrestre - di sale umano più di tutti ne conteneva in testa il bravo dispensiere - zucchero, tabacco e sigari toscani, estratti di pomodoro per la polenta unta che i carbonai preparavano a fine settimana, formaggi, salacche e tanti altri prodotti. Il vino soprabbondava.
I pastori scendevano dai monti per un interscambio di merci varie: portavano un capretto o un porcetto e prendevano ciò di cui avevano maggiore necessità.
Non si stava male. Una stanza, quella di mezzo, dotata di un giaciglio costruito con robuste asse di legno e sopra un capace sacco a materasso, pieno di felci antipulci, mi fu assegnata a temporanea residenza. Nella stanza attigua, contrapposta alla dispensa, vi era al centro un focolare, attorno al quale si davano convegno operai e pastori per raccontare "contos de fochile".
Le guardie forestali, comandate dal brigadiere Faedda, erano alloggiate in una casermetta per loro fatta costruire da babbo. A circa cento metri, un'alta parete concava, aperta a semicerchio, nasconde alla base l'immenso antro di "Sa Grutta 'e sa Oche". Sul grande frontale mi parve di leggere scritto un verso dantesco di approccio infernale: "Di qui si entra...". Il dispensiere che mi accompagnava mi spiegò che dentro a quell'inferno era custodita l'unica riserva d'acqua potabile che dissetava l'intera foresta. Saltando tra grossi macigni raggiungemmo l'ingresso. Più in là, attraverso un sistema di scalini ricavati sulla roccia, raggiungemmo un immoto lago di acqua limpidissima. [...]
Rientrai allo Squadrone recandomi nell'anima la valle, la grotta e il mistero dell'acqua.
[...] Lamentando gravi, inesistenti, motivi familiari mi feci concedere un'altra licenza. [...] A Lanaitu arrivai la sera tardi.
[...] La lunga notte invernale ci colse riuniti attorno al focolare. Mentre per la valle e sui monti si scatenava furioso il temporale, un anziano capraro, Ziu Bette, che aveva trascorso la sua vita appresso al suo gregge, presagì l'uscita delle acque da Sa Oche e prese a raccontare il segreto, immane cataclisma che si avventa dalle viscere della montagna a seguito dei temporali. [...] Per una buona mezzora si odono cupi boati che si rincorrono per la valle generando "Su trumughine ", una sorta di continuo, sinistro brontolio che spaventa uomini e animali. [...] Le acque si riversano all'esterno improvvise, limpide, azzurrine, schiumose dall'immensa grotta, invadendo nella sua corsa impetuosa tutta la bassa valle.
[...] Cadde la pioggia tutto il giorno successivo. Calata la notte attorno al focolare, su trumughine si diffuse per tutta la valle. Lo scampanellio degli animali in fuga tormentò gli animi dei pastori. [...] Erano le undici di notte. Osservai con gli occhi pieni di meraviglia e stupore l'imponente spettacolo.
[...] Tre giorni durò il deflusso delle acque; tre giorni di licenza. La grotta mi rimase scritta in cuore a caratteri indelebili.
[...] Per meriti equestri e disciplinari il Comandante mi accordò una licenza di sei giorni che dedicai interamente alla Valle di Lanaitu. Munito di una lampada ad acetilene di lucido ottone, raggiunsi il lago tornato immoto e silente. [...] Con l'aiuto di alcuni volenterosi carbonai costruii una rudimentale zattera composta di due scalette legate a libro e tenute aperte da due assicelle.
[...] Tra i numerosi operai, nessuno rispose alla chiamata d'imbarco, fui perciò navigatore solitario. Era il mese di febbraio del 1938. Nasceva allora - si disse - il primo speleologo della Sardegna.
Con due tavolette a pagaia, tolti gli ormeggi, intrapresi la navigazione, introducendo per la prima volta il tenue bagliore della mia acetilene nelle tenebre eterne che vi avevano dominato incontrastate per oltre centomilioni di anni. [...] Due in uno: la grotta e io eravamo una sola cosa. Misurai distanze e profondità con una sagola cui mi sentivo saldamente unito come a cordone ombelicale. L'acqua raggiunge la profondità di sedici metri. A circa novanta metri, un immane drappo stalattitico scende dalla volta sino a lambire il lago, precludendo la navigazione. Il lago, attraverso una strettoia, prosegue oltre verso l'immaginario infinito. Rientrai in porto a malincuore, ma lasciai la zattera ben ormeggiata e pronta per future spedizioni. Mi sarebbe occorso di valido aiuto un vice comandante. Lo trovai a Nuoro nel mio più caro amico, Giuseppe Cadoni, direttore didattico, uomo di piccola statura, amante della cultura e di grande coraggio. Ci sentivamo colpevoli di carpire gli intimi segreti della Natura.
L'ira si abbattè su di noi come una terribile condanna. Raggiunto il punto più profondo, la zattera ebbe un brusco sussulto e si scaricò della zavorra umana e di ogni altro peso, rovesciandosi. Caddi in acqua verticale, a capo in su. Portavo in testa una retina che custodiva sulla folta capigliatura una scatola di cerini. Nuotando di gambe e piedi, in posizione eretta, ricuperai la scatola rimasta miracolosamente asciutta e, dopo numerosi tentativi riuscii ad accendere un cerino. Mi trovai accanto una candela stearica galleggiante; la presi e me la ficcai in bocca per tenere libere le mani.
Occorreva fare in fretta perchè il mio vice poco sapeva nuotare. [...] Le pareti levigate a marmo non consentivano alcun appiglio. Accesi un altro cerino, poi un altro ancora e finalmente il lucignolo intriso d'acqua prese fuoco. quel tenue barlume ci parve più luminoso del sole. Ci aggrappammo alla zattera con l'istinto di chi sta per annegare e la spingemmo dolcemente a riva.
Durante la notte sognai di poter raggiungere gli infidi laghi attraverso un'altra grotta che si apre più in alto, maestosa e solenne come una cattedrale che i pastori chiamano " Sa grutta 'e su bentu ", la Grotta del vento. Soffia o fagocita vento con l'alternanza delle variazioni di pressione atmosferica esterna. Il vento si manifesta particolarmente violento in corrispondenza delle strettoie. Dopo circa sessanta metri arrivai alla prima strettoia e la tenue fiammella fu spenta dalla forte corrente d'aria in uscita. Tentai di superare l'angusto cunicolo carponi, tastando con le mani tese il suolo e con la testa la bassa volta. I sei metri o poco più di strettoia mi parvero senza fine. Riattivai la fiamma e mi trovai in bilico sul ciglio di un profondo burrone. Sotto si estendeva una vasta sala ricca di candide stalattiti che pendevano simili a lampadari ottocenteschi da sala da ballo. Raggiunsi il fondo adattando il corpo alle asperità. Ecco la grande sala da ballo perfettamente addobbata da un abile misterioso architetto. Il continuo stillicidio sostituiva la grande massa di suonatori. Come da una platea si diffondeva per l'aria un dolce valzer tentatore. Un cunicolo molto basso e angusto avrebbe consentito il passaggio di stretta misura se non fosse stato impedito da alcune colonnette di calcite. Vi tornai bene equipaggiato e iniziai subito lo smantellamento con punzotto e martello. Le schegge di cristallo, sospinte dal vento mi si conficcavano negli occhi. Più volte dovetti attendere che il vento prendesse a soffiare verso l'interno e riprendere il lavoro con lena maggiore. Riposavo quand'ero stanco; mangiavo quando avevo fame. Esisteva solo la notte e perciò non mi resi conto del tempo trascorso. Ultimato il lavoro, feci una puntatina di curiosità. Mi affacciai a un pozzo che sembrava senza fondo.
Lanciai un grosso pezzo di calcite per accertarmi che non vi fosse dell'acqua. Assicurai una grossa fune a una stalagmite e mi calai sedici metri a forza di braccia. Mi accolse una sala alta oltre venti metri e lunga forse cento che percorsi agevolmente su un soffice strato di sabbia argillosa, sulla quale rimasero impresse le prime orme del passaggio umano. Un caotico ammasso di macigni di frana, franosi, posero fine al mio ardimento.
Ma, osservando oltre, a grande profondità intravidi il riflesso sull'acqua della minuscola fiammella che mi aveva guidato per quelle asperità senza fine.
[...] Forse stava per scadermi la licenza. Mi affrettai verso l'uscita. Con la tuta ridotta a brandelli raggiunsi la dispensa dove regnava la disperazione. Avevo trascorso una notte lunga tre giorni. Ziu Portolu mi sfamò. Mi lavaij e sbarbai e caddi in sonno profondo. Quando mi alzai dal giaciglio trovai ad attendermi la cavalla già insellata. Arrivai in tempo allo Squadrone per esseri inviato in missione a Macomer.
Dopo un mese rientrai al reparto e mi ebbe l'ultima licenza speleologica.
Raccontai i risultati della mia ultima impresa e convinsi a rientrare in servizio sotterraneo Cadoni Giuseppe. A noi si unì un altro caro amico Ventura Federico, insegnante elementare. [... ]Ben attrezzati raggiungemmo agevolmente i profondi laghi azzurri di Su Bentu—Sa Oche.
Ci dissettammo di quelle acque fresche e ci abbracciammo stretti insieme a lungo. Nei nostri cuori stringevamo l'atto costitutivo del primo gruppo speleologico della Sardegna , che dalle nostre iniziali prese il nome di Pi. Ca. Ve.
Correva ancora l'anno 1938.
Ci sentiamo ancora lì, uniti in quel meraviglioso abbraccio e vorremmo restarci per sempre finchè chi seguirà le nostre orme potrà ammirare, col passare dei millenni, la tricuspidata stalagmite umana.