BUE MARINO
Bue Marino. Storie di esploratori
di Maurizio Murgia
tratto da Sardegna Speleologica n. 29 del 2017
Narra la leggenda che in tempo antichissimo dei pescatori avessero cercato di introdursi nella grotta, forse per cercare un sicuro riparo dalla furia delle onde o forse perché spinti dalla curiosità, trovando però l’ingresso sbarrato da una foca dalle dimensioni colossali, terribilmente infuriata dalla paura di perdere i “cuccioli” che si trovavano nell’interno. A stento, e solo dopo un’epica lotta col bue marino, i pescatori sarebbero riusciti a trovar scampo e a guadagnare la riva: nel loro terrorizzato racconto, quella foca si sarebbe ingrandita fino a raggiungere proporzioni incredibilmente enormi, e con tutta probabilità fu proprio questa la ragione che tenne lontani dalla grotta anche i più temerari, i quali non si azzardarono mai ad avventurarsi al di là della prima, spaziosa caverna.
Così riporta un giornale dei primi anni cinquanta e chissà se veramente, in passato, questa credenza sia stata d’ostacolo per qualche coraggioso voglioso di immergersi nel buio del Bue Marino. Anche se conosciuta fin dai tempi antichi, per illuminare le profondità della grotta bisognerà attendere le prime esplorazioni speleologiche compiute a cavallo del 1950 dai ragazzi del Gruppo Grotte Nuorese, giovani speleologi di venti e trent’anni, che iniziarono un lungo periodo ricco di esplorazioni e scoperte che è stato portato avanti da decine di speleologi di tutto il mondo in un percorso – fisico e temporale – lungo 70 Km e settant’anni.
Le prime esplorazioni
I primi contatti con la grotta alcuni componenti del GGN lo ebbero durante il periodo delle campagne contro la malaria condotte dall’Erlaas (Ente regionale per la lotta anti-anofelica in Sardegna) quando oltre alle case, agli edifici pubblici, alle scuole, etc., vennero irrorate di DDT anche moltissime grotte. Per le prime vere esplorazioni bisognerà dunque attendere il biennio 1950/1951. La situazione economica e sociale di quella Sardegna in bianco e nero è oggi difficile da immaginare: regione poverissima e con pochi mezzi ma dove la voglia di ricominciare si manifestava anche nel praticare discipline “strane” come la speleologia.
“C’è stato, è vero, qualcuno che li ha visti partire, stranamente equipaggiati con tende, con sacchi, con copiose provviste e abbondanza di bottiglie e muniti di misteriosi strumenti.
Ma - diciamo la verità – chi avrebbe potuto immaginare uno speleologo in quel professore, terribilmente “barbaricino” il cui trapianto nella metropoli lombarda non ha per nulla affievolito il malinconico e nostalgico amore per questa nostra povera terra, la quale forse attende la sua rinascita, vera e non fittizia, proprio dalla scoperta e dallo sfruttamento di risorse ancora ignorate, che essa conserva gelosamente nelle sue inesplorate viscere?
Chi avrebbe potuto immaginare che quella allegra e chiassosa brigata avesse lo scopo ben determinato, serio, di altissimo interesse scientifico, oltre che turistico?”.
Così in una pubblicazione del 1953 vengono descritti gli speleologi del Gruppo Grotte Nuorese e uno dei suoi primi componenti, Michele Columbu.
Su come realmente si siano sviluppate le prime esplorazioni nelle Grotte del Bue Marino poco è stato scritto e quindi possiamo solo immaginare come ciò sia avvenuto. L’organizzazione di una spedizione di più giorni richiedeva impegno e soldi e pertanto veniva organizzata con largo anticipo. La prima fase consisteva nell’invitare i soci alla spedizione attraverso una lettera: “Nel mese di aprile una lettera inviataci dal sig. Piredda ci annunciava la sua intenzione di organizzare l’esplorazione delle grotte da lui già parzialmente sondate: le grotte del Bue Marino a Cala Gonone. Già altre volte fui contattato a prender parte a qualche spedizione, ad esempio nella valle di Lanaitto, ma questa volta la meta era, se possibile, ancora più affascinante. Risposi con entusiasmo all’invito”. Nello stesso momento venivano inviate a privati ed enti vari richieste di contributo per l’organizzazione della spedizione e le risposte raramente erano negative.
Gli spostamenti erano l’elemento più difficile dell’organizzazione: o ci si arrangiava con l’uso dei mezzi pubblici o coinvolgendo privati automuniti (cosa rara all’epoca). “La mattina del 14 giugno del 1950, sotto un cielo stranamente grigio, arriviamo a Gonone accompagnati dal sig. F. Sanna a bordo della sua Pescaccia; di lì a poco ci avrebbe raggiunto il sig. …... con la sua ….. e il resto della compagnia. In tutto una decina di speleologi – nuoresi e dorgalesi - pronti a esplorare le grotte del Bue Marino. Ci troviamo sul molo del piccolo porto di Cala Gonone, di fronte all’imbarcazione che dovrebbe portarci alla nostra destinazione”.
La grotta veniva raggiunta solitamente con una barca ma non di rado accadeva che in caso di mare cattivo ci si avventurasse a piedi. “Il forte maestrale rischia di farci cambiare il programma di avvicinamento. Infatti, in caso di impraticabilità del mare, come mi spiega il sig. Ventura, dovremo risalire lungo la strada per Dorgali e raggiungere a piedi una zona chiamata Toddeito; da lì, poi, saremo scesi verso il Bue Marino. Fortunatamente le condizioni del mare migliorano e i grossi zaini militari anziché sulle spalle vengono caricati sulla barca e così pure tutto il necessario per il campo di cinque giorni: Carburo, Sardine...”
Il Bue Marino non è del tutto inesplorato, le caverne iniziali sono già state visitate: scopo di queste prime missioni è esplorare le più lontane profondità della grotta e per fare questo era necessario dotarsi di mezzi e strumenti idonei. “La traversata è tranquilla e alle 14.00 ci troviamo tutti in quella che verrà chiamata La Grande Sala. Viene allestito il campo e dopo si procede con una piccola ispezione verso Nord. La notte scorre serena.
La mattina del 15 giugno prepariamo l’occorrente per navigare attraverso l’oscurità. Abbiamo solo una piccola barca, di quelle utilizzate dall’Erlaas per la disinfestazione: un piccolo battello in metallo e legno capace di ospitare due persone che in questo caso riuscirà ad ospitarne tre. Caricato il necessario, compiuti i soliti riti di buon viaggio, la nave salpò verso l’oscurità in direzione Sud!”.
Trieste e la grotta più lunga d’Italia
A Michele Columbu - il Camminatore che tanto avrebbe fatto parlare di sé nella politica sarda degli anni successivi - fu affidato il compito di presentare i lavori del GGN a Trieste nel 1954, in occasione del VI° Convegno Nazionale di Speleologia. L’importanza della grotta e anni di sacrifici esplorativi trovarono in questa sede il giusto riconoscimento speleologico attraverso la presentazione di una relazione dal titolo: “Note preliminari sulla più lunga grotta d’Italia, il Bue Marino, e su altre cavità naturali in provincia di Nuoro”.
Tra i vari passi della relazione eccone alcuni tra i più significativi riferiti al Bue Marino:
“Benché l’esplorazione non sia terminata (mancano numerosi cunicoli e gallerie laterali; e resta da vedere la galleria principale dove, recentemente, l’acqua del sifone terminale si è abbassata lasciando passare una notevole corrente d’aria) nessun’altra, né più grande né più bella, è stata così appassionatamente visitata dal Gruppo Grotte Nuorese, che ne ha finora rilevato m. 4051. La scoperta di questa grotta (1951) si deve a un gruppo di studenti dorgalesi che, animati da spirito di avventura, vi penetrarono profondamente con canotti pneumatici. Ma senza l’intuizione del suo grande valore turistico e un tenace interessamento da parte di Dino Giacobbe, attuale Presidente del Gruppo, sarebbe rimasta più o meno sconosciuta e ancora definita «mediocre», come nel lavoro del Maxia che ne ricavò i pochi dati dall’opera di Alberto Lamarmora. Il quale, quando passò da quelle parti, oltre un secolo fa, trovò il mare cattivo e non poté visitarla. Grande iattura certamente per la fama di questa grotta nei confronti di quella, famosissima, di Nettuno sulla costa occidentale”.
Columbu poi passa alla descrizione della grotta:
“La Grotta del Bue Marino deve il suo nome alla presenza delle foche che s’incontrano assai frequentemente, fino a mandrie di dieci capi, in ogni stagione ma specialmente nell’inverno, durante il cattivo tempo. Si apre su un’alta costa a picco sul mare con due imponenti portali; quello di sinistra conduce alla galleria navigabile; quello di destra dà luce a una grandissima sala asciutta che si sviluppa verso nord, e attraverso un laghetto (detto «smeraldino» perché prende un delizioso tono di luce verde dal sifone comunicante col mare aperto) e poi un cunicolo, scoperto e reso praticabile dal Gruppo Grotte Nuorese, comunica con la così detta Grotta Nuova, estesa un migliaio di metri e un tempo ritenuta facente parte a sé. Questa parte del Bue Marino è accessibile dal mare mediante altre due imboccature e da terra mediante una scaletta a pioli poggiata a un’altra parete (finché non sarà scavata la galleria artificiale in progetto). Tutto questo tratto è percorribile facilmente e offre spettacoli non comuni di stalattiti, stalagmiti, concrezioni bianchissime, frangette regolari che paiono ricamate e disposte dalla mano dell’uomo lungo le gallerie, grandi coppe cristalline scintillanti di minute incisioni e rilievi, torricelle di immacolato e trasparente candore. Dall’ingresso di sinistra si prosegue invece in barca, sempre in acqua marina, per 750 metri. Di lì, dopo un breve sbarramento, comincia l’acqua dolce. Tutto il percorso è navigabile: per due terzi necessariamente, perché le pareti sono, a picco, e per un terzo circa è percorribile anche a piedi per facili camminamenti. In qualche punto la grotta si allarga fino a 150 metri; l’altezza massima è di m. 80, la profondità massima dell’acqua (autunno 1953) di m. 15. Queste notizie sulla grotta più lunga d’Italia sono, per la loro frettolosità, semplici dati preliminari. Un’illustrazione completa e minuziosa, corredata di molte fotografie e del rilievo orizzontale, è in preparazione presso il Gruppo Grotte Nuorese”.
La valorizzazione turistica
Per tutti gli anni cinquanta queste grotte e i suoi dintorni costituirono uno dei principali campi di esplorazione in cui il Gruppo Grotte Nuorese operò e dove le ricerche, a un certo punto, si misero al servizio delle istituzioni con progetti di valorizzazione turistica.
E proprio a un importante finanziamento della Regione Sardegna si deve il primo e completo rilievo del Ramo Sud della grotta e il GGN venne incaricato di redigere un progetto di valorizzazione turistica. Si iniziò con un rilievo (finanziato dalla Regione Sardegna con 3.000.000 di lire (circa 50.000,00 € di oggi) così giustificato: “...sia erogato all’Ente Gruppo Grotte del Nuorese per l’esecuzione del compimento degli studi e delle esplorazioni in corso, la somma di L. 3.000.000,00 data l’importanza delle scoperte che costituiscono indubbiamente un fattore di nuova attrattiva per la corrente turistica verso l’isola”.
Il biennio 1953-1954 fu speso nella realizzazione del rilievo (quando la grotta fu presentata a Trieste questo era ancora in fase di sviluppo). I lavori coinvolsero poco più di una decina di speleologi coordinati dall’allora Presidente del GGN, Ing. Dino Giacobbe, e diretti sul campo dal geom. Francesco Pisanu. Oltre ai rilievi il finanziamento prevedeva anche la realizzazione di opere per rendere turisticamente fruibile la cavità (fino al 1956 il GGN gestì i servizi turistici all’interno del Bue Marino).
Dal rilievo “Pisanu” datato 1954 si possono leggere quali erano le “esplorazioni più urgenti” da compiere:
1° - Esplorare il corso del torrente sotterraneo che alimenta la Grotta del Bue Marino, procedendo dai due estremi: dal sifone terminale di questa, in a monte, e dall’inghiottitoio del rio Codula di Luna, in a valle.
2° - Verificare l’ipotesi che la Galleria degli Scheletri Quaternari abbia termine, superiormente, nel rio Codulas e che sia praticamente attuabile la disostruzione.
3° - Accertare l’esistenza dei “Laghi Intermedi” tra il “Lago Smeraldo” e il “Lago Nero”, e dei presunti “Laghi Superiori” a monte di questo.
4° - Fare il rilievo planimetrico della grotta di Toddeitto per accertare se ha già una comunicazione con la grotta del Bue Marino o se, almeno, è economicamente possibile crearla.
Come accennato prima, tra il ‘53 e il ‘56 le grotte vennero gestite dal GGN e tra i tanti turisti vi erano anche numerosi giornalisti italiani e stranieri inviati dai loro giornali per descrivere le bellezze della grotta e poteva capitare che qualcuno di questi avesse la fortuna di vedersi intitolata una parte di grotta come capitò alla olandese Meri Mulder. Infatti “La spiaggia della fanciulla D’Olanda” le fu dedicata quando nel settembre del ‘53 entrò nelle grotte del Bue Marino e, come indicato anche nel rilievo “Pisanu”, “fu la prima donna che abbia mai osato oltrepassare il 1° sbarramento e percorrere la grotta fino al sifone terminale”. Oggi – chissà perché - questo ed altri nomi sono scomparsi dai rilievi “ufficiali” pubblicati.
Il crescente sviluppo turistico spinse l’Ente Provinciale per il Turismo a un ulteriore sforzo per valorizzare la grotta come già succedeva nel Nord Sardegna con la grotta di Nettuno e il GGN fu nuovamente coinvolto. L’otto luglio 1956 venne “indetta una riunione a Cala Gonone dall’Assessore Regionale al Turismo, On. Antonio Gardu e dal Centro Speleologico Sardo (Prof. Carlo Maxia) per la consegna alla Pro-Dorgali delle attrezzature residuate dal GGN nella prima fase di valorizzazione turistica delle Grotte del Bue Marino” e il GGN venne incaricato di redigere un “Piano di valorizzazione turistica” della grotta e non solo.
Si iniziò con un lungo campo - dal 13 luglio 1957 al 21 luglio 1957 - alle Grotte del Bue Marino per l’esecuzione dei rilievi finalizzati alla progettazione delle opere di valorizzazione turistica. Dalla relazione tecnica di questo progetto si legge: “La Grotta del Bue Marino, come si presenta attualmente, ha però bisogno di quelle opere, fatte dalla mano dell’uomo, che diano la possibilità di un facile e sicuro accesso e permettano una visita comoda all’interno. (…) Sulla sommità del ciglione sovrastante l’ingresso principale è prevista la costruzione di un edificio comprendente i locali per l’alloggio del custode e per i servizi di gestione della Grotta”.
Contemporaneamente nello stesso periodo venivano portate avanti ricerche all’interno della Codula Ilune, nelle grotte de S’Orcu, Toddeito e Buchi Arta. Da una spedizione a Buchi Arta (1956):
“Raggiunta la ridente spiaggetta di Cala Luna per via mare, a Sud di Cala Gonone, subito dopo la Grotta del “Bue Marino”, gli uomini, carichi di attrezzi e bagaglio, sotto l’incessante sferza di un vento caldo di ponente ma con celerissima marcia, in poco meno di tre ore si portarono all’inghiottitoio, chiamato di Carcaragone, il quale si trova sulla sponda destra del Rio suddetto, poco dopo che in esso si vadano a versare le acque dell’affluente che scende dall’ovile di “Ziu Benittu”, da Preda Molina e di Sa punta de sos Udulos. Quest’inghiottitoio, durante l’inverno, riceve buona parte del fiume che dalle più alte vette delle montagne orientali di Baunei, Urzulei e Dorgali trascinano grossi massi granitici, calcarei e persino vulcanici. Pare infatti che poco più a Nord di Preda Molina e di s’Azza ‘e Zuampredu esistano le tracce di un vulcano spento. Lo scopo principale del gruppo era di accertare se fosse vero, come qualcuno aveva asserito, che l’inghiottitoio di Carcaragone portasse alla grotta del “Bue Marino” di Dorgali. Fu accertato il contrario perché le sue acque, dopo aver attraversato Sa Preda Molina per circa 140 metri, seguendo le stratificazioni da NO a SE, terminano in un grazioso laghetto e scompaiono a sifone rientrando nel Rio Codula”.
Il Bue Marino rimarrà ancora per parecchi anni al centro dell’attività del gruppo suscitando nei suoi componenti ammirazione e parole che raramente si sono lette per altre grotte. Bruno Piredda, che amava scrivere e descrivere le grotte con toni e termini solenni, scrive: “Sognando ad occhi aperti ho percorso le Grotte del Bue Marino nei tortuosi tronchi principali e nei più riposti meandri delle sue numerose diramazioni (...) Nella spiaggetta delle foche, ancora vergine al turista, attratto da un insolito brontolio, ho scoperto un “cucciolo” di appena 10-15 giorni.
Russava beatamente. L’ho preso tra le mie braccia e ne ho sentito il caldo tepore della sua fitta peluria. (…) Occhi dolci. Pareva che anch’esso sognasse a occhi aperti. Lo riappoggiai sulla soffice culla di sabbia e fece un breve tentativo di seguirmi mentre mi dirigevo al mio battello d’aria. Allontanandomi, mamma foca fece la sua improvvisa apparizione sull’acqua sbuffando l’aria del suo lungo fiato ed esprimendo la sua viva disapprovazione all’inusitato ospite con poderosi latrati-muggiti.
L’eco di queste urla di dolore e i vividi sentimenti suscitati da tanta primordiale maternità, svigorirono durante il lungo viaggio sotterraneo, ma non mi abbandonano mai.
Ho superato la cascata, dove il fiume sotterraneo si riversa nel lago salato, accedendo alla Sala dei Concerti, vastissima, sorretta al centro da un solido pilastro roccioso.
Sul palcoscenico naturale, formato da un alto banco stalagmitico concrezionato ad aiuole, “ho stonato”, con perfetta acustica della sala, “In s’hortu meu bi pianto canna.....“.
Unici spettatori (ciechi) gli Speomolops sardous, veri epigoni reliquati della leggendaria “Tirrenide”.
Ho ripreso a navigare di lago in lago, per due chilometri ancora, tra innumerevoli incantamenti, fino ad imbattermi in una sconcertante scoperta. Sotto un tetto di basalto quaternario colato nella grotta attraverso una voragine della montagna, nelle basse pareti argillose ecco incise le unghiate, ancora straordinariamente vivide, di un ospite eccezionale, ecco le nicchie scavate a morsi e graffi nell’argilla ferruginosa da un essere che fugge perseguitato dagli acri vapori bollenti di un fiume... battuto dai macigni lavici incandescenti; ed ecco la vittima di quell’immane cataclisma: sparsi al suolo e cementati alla roccia i miseri resti scheletrici di una foca glaciale, calata nel Mediterraneo forse cinquanta, forse cento, forse più mila anni fa”.
Le prime spedizioni subacquee
Nei primi anni sessanta le esplorazioni speleologiche avevano subito un forzato stop: il campo esplorativo si stava spostando nelle parti sommerse. Scrive ancora Bruno Piredda: “...la grotta si tuffa entro un lago buio e profondo; il desiderio di una immersione, alla ricerca delle lontane, misteriose origini di questa grotta, ancora oggi mi assale fisicamente e tormenta l’aridità del mio Sapere”.
Non essendoci all’interno del GGN sub capaci di compiere immersioni di questo tipo e pur avendo provato - con insuccesso - a costituire una squadra sub (vennero acquistate anche le necessarie attrezzature) si provò a coinvolgere altri gruppi. Sempre Piredda scrive nell’agosto del ’63: “Dopo una settimana di intensi preparativi e di studi preliminari è stata effettuata una delle più importanti spedizioni speleologiche condotte alle Grotte del Bue Marino. (…) Sotto la guida dell’ing. Mario Coinu, presidente del GGN, la squadra esplorante mista era composta dai sigg.: dr. Tonino Pintori, dr. Serafino Brotzu, dr. Giuseppe Cadoni, geom. Tonino Carta, Francesco Melis e dall’universitario Giovanni Todde, tutti nuoresi; dai belgi Charles Dib, Renè Salme, Andrè De Redde, Alain Dumont, Jean Paul Quintin, Milou Steenwerckse, sig.na Nadine Loupart e Daniele Zimmerman, istruttore dei sub; dai sommozzatori Maresciallo palombaro Antonio Masu, serg. Nocchiere Luciano Spiga, serg. Infermiere fisiologia subacquea Esposito Arcangelo del 6° gruppo Dragaggio di La Maddalena.
Compito principale della spedizione: forzamento del sifone terminale del fiume sotterraneo, attraverso l’ultimo lago della diramazione Nord. (…) Il maestrale, che aveva soffiato impetuoso nei giorni precedenti tenendo le barche dei pescatori inchiodate al molo, era calato durante la notte, sicché al mattino del giorno successivo il grande disco del sole, solcando il mare placido con una striscia di fuoco, colse la comitiva intenta a stivare sulla “Giuliana”, gentilmente messa a disposizione dalla Pro-loco di Dorgali, le complesse e delicate apparecchiature della spedizione. (…) La squadra di punta fu costituita da tre speleologi italiani: Carta, Coinu, Piredda; da due speleologi belgi: Steenwerckse e Salme; dai subacquei Masu, Spiga, Zimmerman, Quintin e Brotzu. Lunghezza della sagola: m 150. Tempo massimo d’immersione: 35’. Capo sagola l’ottimo Zimmerman, seguito da Spiga col suo piccolo ma pericolosissimo erogatore ad ossigeno, e da Quintin. (…)
Ore 13.10: la sagola scende a piombo, controllata dal nostro maresciallo con leggero tocco dei polpastrelli. Tre fasci di luce puntano verso il fondo cupo del lago sciabolando in direzione Ovest, si affievoliscono celermente e scompaiono d’improvviso sotto una grande roccia. (…) Sono passati ormai 40 minuti dall’immersione, cinque in più del previsto. La nostra ansia è indicibile. Al 42° minuto, un leggero strappo. Al 43°, altro strappo, poi piccoli strappi successivi. Rinforziamo le nostre luci: acetilene a tutta pressione. (…)
Le lucciole traspaiono dal fondo, s’ingrandiscono, diventando fari luminosi che saettano luci verso l’alto. Grosse bolle d’aria precedono in superficie i sommozzatori. Una mano emerge per prima portando il segno di O.K. tra pollice e indice. (…)
Durante la colazione di servizio, consumata sul palco della Grande Sala, riservato all’orchestra, abbiamo appreso i seguenti fatti: Fiume sotterraneo: 1° sifone – profondità m. 13, lunghezza m. 50; 2° sifone – profondità m. 10 lunghezza m. 100; galleria intermedia, dislivello + m. 10, lunghezza m. 50, non completamente esplorata; nicchia delle Rose, stupenda nicchia rocciosa, riccamente adorna di concrezioni, tra le quali il sergente Spiga ha intravvisto le forme di una gigantesca rosa”.
Altra immersione venne compiuta nel 1965 ad opera degli speleosub del Gruppo Speleologico Piemontese, i quali , guidati da Eraldo Saracco che dopo qualche giorno perirà all’interno della grotta di Ispinigoli, percorsero il Sifone Terminale per circa 75 m.
Dalle loro relazioni (Bollettino Grotte – Anno VIII n° 27/65) si legge: “Il 5 agosto 1965 è stata effettuata una punta al Bue Marino con il preciso scopo di “dare un’occhiata” al sifone terminale. Chicco Calleri, Saverio Peirone, Eraldo Saracco ed io arrivammo al fondo della grotta dopo aver trasportato sulle nostre spalle il non poco materiale. Le solite operazioni di rito e poi Eraldo e Saverio si immergono con l’ARA, nell’acqua stagnante: passano pochi minuti e riemergono. Il laghetto fa sifone subito sulla sinistra e in pochi metri si raggiungono i meno dodici. Le pareti sono di sabbia e fango, per cui l’uscita dal lago si fa in mezzo ad una nuvola rossastra: il fondo del sifone però è ghiaioso, molto grande ed in piano. Ora che la prima ricognizione è fatta bisogna attuare la seconda fase del programma, ormai divenuto standard secondo i nostri metodi di esplorazione: la puntata in avanti. Si immergono sempre Eraldo e Saverio, mentre io resterò alla sagola, equipaggiato, pronto ad intervenire in caso di necessità. In breve tempo tutto il “filo d’Arianna” a nostra disposizione, circa 80 m, si esaurisce, dobbiamo per forza non mollare ulteriormente: per fortuna cominciano a tornare indietro. (…)
Il 12 agosto facciamo una seconda punta, più organizzata, con una nutrita squadra di appoggio. (…) Abbiamo percorso 75 metri di galleria sommersa, ad una profondità massima di 12, con una leggera deviazione sulla destra, per cui a volte la sagola si impigliava in alcune lame di roccia. Tornati una terza volta, dobbiamo desistere per l’intorbidamento dell’acqua, troppo mossa nei giorni precedenti”.
Vista l’impossibilità fisica di proseguire le esplorazioni, l’interesse esplorativo del GGN per questa grotta piano piano diminuì e l’attività negli anni successivi andò a concludersi e a limitarsi ad accompagnamenti o visite fotografiche.
Diverso fu nel 1972 quando nella sede del GGN si presentarono due speleosub tedeschi: Jochen Hasenmayer e Tony Wulsh, accompagnati dalle rispettive consorti Barbara e Irmtraut.
Nell’estate di quell’anno Hasenmayer e Wulsh si immersero nei sifoni terminali del Bue Marino, a Sa Oche-Su Bentu, Su Gologone e nella risorgente di Cala Luna. A proposito del Bue Marino, dalla relazione si riporta:
9 agosto 1972
Jochen Hasenmayer, Tony Wulsh, supporto GGN: Pietro Piredda, Paolo Verachi, Raimondo Gabbas e Felice Corda.
- Sifone terminale Ramo Sud: 330 m di sifone terminale – profondità -26 m. Prima 50 m, poi 100 m a pelo libero, poi ancora 180 m di sifone. Larghezza media 20 m (sud-sud ovest, sud, sud-sud est);
- Lago Nero – 350 m poi fuoriuscita al lago Verde e a mare;
- Lago terminale fiume sotterraneo Nord. Dopo 50 m a pelo libero per pochi metri. A 150 m (-13) fuoriuscita a pelo libero con concamerazione ricchissima di eccentriche e concrezioni varie”.
Mentre per quanto riguarda la Risorgente di Cala Luna in una lettera al GGN del 1973, Hasenmayer scrisse: “Nous puissons lire que cette expedition sommerso dans la grotte del Cala Luna avait fait une distance totale de 1080 m. La longeur de la grotte etait environ 470 m. (…) J’etait sous l’eau 4,5 heures et avait plongé une distance totale de presque 2 kilometre”.
Jochen Hasenmayer, figura fondamentale nel mondo della speleo-subacquea, tornerà negli anni successivi compiendo importanti esplorazioni che sono meglio descritte nell’articolo successivo.
A conclusione di questo piccolo viaggio attraverso le prime esplorazioni condotte o vissute dal GGN riporto quanto scritto esattamente sessant’anni fa da uno speleologo durante la campagna rilievi del ‘57, dove note tecniche si alternano a note allegre e che in qualche modo ci consentono di comprendere lo spirito allegro e disincantato che guidava quei ragazzi:
“Lunedì 15 luglio 1957
Il gruppo ha occupato la mattinata nelle operazioni di sistemazione logistica.
I signori Delussu e Mele hanno fatto i rilievi con rilevazione della posizione dell’entrata della grotta del Bue Marino. Dalle rocce dove è stata fatta la battuta non era possibile vedere la punta Nosculi di Cala Luna. Conseguentemente la bussola è stata orientata con riferimento alla Punta di Monte Santo e alla Punta di Osalla.
Ore 13.00 Pranzo
Per ragioni tecniche lo zimino è stato rimandato alla sera. Baragliu finalmente esce dal canotto.
A pranzo manca il vino.
Nel pomeriggio si procede alla misurazione dell’entrata della grotta. Passa un gruppo di 4 tedeschi di cui due donne con costumi piuttosto adamitici.
Si procede alle misurazioni.
Dall’ingresso fino all’imbocco del braccio d’acqua interno vengono fatti i sondaggi.
Dall’alto della roccia esterna Giov. Antonio Ganga scruta l’orizzonte.
A cena, alle 19.00, (strano?) zimino.
Ore 19.05 scopato lo zimino… manca il vino.
Alle 19.45 “digerentibus omnibus” viene avvistata una foca (che Dio la benedoca)”.