Racconti - Carlo Mauri

Nel 1974 per il settimanale La Domenica del Corriere, il famoso alpinista ed esploratore Carlo Mauri, insieme a Luigi Bazzoli, inizia un viaggio alla scoperta dei luoghi incontaminati d'Italia; la sua prima tappa fu la Sardegna con tre itinerari: uno nel Supramonte di Orgosolo e due nei territori di Baunei e Dorgali. Negli ultimi due venne accompagnato da alcuni “speleologhi dilettanti” del Gruppo Grotte Nuorese. Questa definizione non venne accolta molto bene dall'allora Presidente Bruno Piredda che scrisse a Mauri lamentandosi; l'alpinista non poté far altro che scusarsi dell'infelice descrizione. Il breve carteggio è conservato nella sede del GGN.

BARBAGIA: DOVE ANCORA NON ARRIVA IL CEMENTO

C'è una parte della Sardegna che conserva un volto antico di millenni: candide spiagge, foreste rigogliose, daini, mufloni, aquile, cinghiali e 30 mila grotte in gran parte inesplorate.

Domenica del Corriere – agosto 1974 - Carlo Mauri e Luigi Bazzoli 

Non avevamo ancora messo piede sull'isola che le narici di Mauri si dilatarono in un fremito leggero. Stavamo sul ponte del traghetto che ci aveva portati da Genova a Porto Torres. Guardavamo la terra che si avvicinava; una lama di vento ci portò addosso un profumo intenso. Fu allora che Mauri si scosse. « Questo – disse – è l'odore di un altro mondo. »

Era l'odore della Sardegna.

Una sensazione che soltanto Mauri aveva percepito, d'improvviso; forse perché in lui non si è ancora ottenebrata quell'impalpabile capacità di udire le voci della natura. Nel lungo viaggio mi capiterà altre volte di vedere fremere le narici di Mauri: sarà sempre il segnale della vicinanza di qualcosa che risveglia in lui un'emozione intensa. Compresi allora che non servivano le carte geografiche, gli itinerari segnati e studiati nei minimi particolari. Sarebbe stato l'istinto di Mauri a guidare la difficile esplorazione attraverso i sentieri sconosciuti d'Italia.

Con Mauri abbiamo girovagato per tre giorni, alla ricerca di un soggetto: abbiamo visto paesaggi stupendi, ma qualcosa sembrava lasciare insoddisfatto Mauri. Al mattino del quarto giorno si mise al volante della jeep e puntò direttamente verso il centro della Sardegna. Mauri non ha mai guardato una carta geografica. Si regola col sole. Quel mattino puntò sicuro verso Sud-Est, quasi lo richiamasse una voce. Guardai la cartina e lessi: Barbagia. 

Nel cuore sardo.

Chiamano la Barbagia il cuore della Sardegna non solo perché è terra di foreste, acque, montagne e animali da sempre in libertà, ma perché ancora oggi vi abitano genti fiere. Furono i romani a definirla terra di barbari dopo che per anni avevano tentato di sottometterla. Ma ancora oggi se parlate ad un barbaricino vi dirà che i barbari sono gli altri, coloro che si sottomisero e coloro che volevano dominare. Loro sono soltanto dei ribelli e la terra che abitano è uguale al carattere della gente: selvaggia, austera. Ci fermiamo ad Orgosolo: paese di pastori, banditi e latitanti. L'odore aspro degli ovili misto all'aroma delle foreste stordisce un po' la testa.

In un'osteria chiediamo come si può raggiungere il Supramonte. Un pastore si offre di guidarci. «Sono appena sceso. Domani devo ritornarci spiega. Della leggendaria ospitalità dei sardi avremo infinite testimonianze. Questa è la prima. Nel locale ci osservano alcuni pastori. S'avvicinano, offrono da bere. Ciascuno un bicchiere, per dodici volte. A sera tardi, rischiarato dalla luna e battuto dai venti il Supramonte emana un fascino oscuro. Lassù, per secoli. il pastore sardo si è rifugiato per difendere la propria libertà. L'altipiano forma un'acropoli inespugnabile, dentro la quale soltanto i pastori osano spingersi.

Alla scoperta del Supramonte.

II pastore che l'indomani mattina, alle quattro, ci fa da guida ha ventisei anni; da diciotto pascola pecore. Aveva otto anni quando suo padre lo portò per la prima volta al Supramonte. E' magro, piccolo, gli occhi di ghiaccio. Noi vestiamo scarponi, giacche a vento: lui un vestito normale, pantaloni e giacca a tre bottoni. Per noi è un'avventura, per lui è un lavoro, duro, estenuante. « La sfortuna di nascere qui », dice.

Si parte da Orgosolo, prendendo subito la strada a fondo naturale che s'inerpica su terreni granitici. Dopo due ore di viaggio ci fermiamo alla casa forestale di Funtana Bona, dove ci offrono grappa e caffè. L'alba sta rischiarando il paesaggio: la massa del Supramonte si delinea nel suo isolamento impervio: sono cinquanta chilometri quadrati a un'altezza di mille metri. Attraversiamo un bastione calcareo, battuto dai venti, tra cespugli di eriche e felci. Il silenzio è profondo. Andrea, il nostro pastore guida, guarda lontano verso le rocce delle vette in cerca di mufloni. Superiamo una foresta pietrificata: centinaia di tronchi contorti sopravvissuti ad uno spaventoso incendio che distrusse parte del Supramonte nel 1931. Giungiamo al monte Novo san Giovanni, un torrione che sorge isolato su una pietraia arrossata dalla fioritura della peonia selvatica. Dalla vetta dove ci arrampichiamo lo sguardo si perde in un mare di verde: una foresta di lecci si estende per 25 chilometri quadrati; da secoli un vento li scuote piegandoli: insieme ai lecci spuntano ginepri, eriche e felci. 

Siamo in cammino da cinque ore; trecento minuti di macchina, una velocità minima, uno spazio di tempo esiguo eppure sufficiente per trasportarci in un mondo diverso. Mauri osserva: « Non è un mondo diverso; è antico, immobile da millenni, lo stesso forse in cui vissero Adamo ed Eva. Abbandoniamo la jeep e ci inoltriamo a piedi: davanti a noi, oltre il mistero del Supramonte, c'è il mare. L'ambiente muta ad ogni passo. Si attraversa un terreno roccioso, bianco di calcari, inciso dal vento e dall'acqua che emette suoni metallici. Il passo di Andrea è leggero, rapido. Non scosta un sassolino, non calpesta un fiore. Il nostro, il mio almeno, rimbomba come una frana. Entriamo nella foresta di leccio, l'unica in tutta Italia che non abbia mai subito le ferite dei tagli. L'intrico dei tronchi è fitto: il sole filtra a fatica. Non ci sono sentieri, si va alla cieca. Mauri mi sussurra: «E se ci perdiamo? ».

Camminiamo per ore: ogni tanto il pastore che ci precede, si china, raccoglie un sasso, un ferro, un legno. Sono testimonianze della civiltà nuragica. Una moneta, un'ascia di pietra. Andrea non ha fatto scuole: ci chiediamo dove abbia imparato a distinguere le ere geologiche dei sassi che raccoglie, i segni di una civiltà scomparsa. « Questa è casa conosco i spiega mia venti, gli animali, gli alberi, i sentieri perché qui vivo. »

Il manto del sottobosco è fiorito di peonie rosse, di digitali sanguigne, di mirto, di genziane. Sbuchiamo dalla foresta e troviamo un nuraghe. Circolare, di pietre calcaree bianche pare un'architettura lunare sul mare nereggiante della foresta. Si chiama nuraghe Mereu ed è perfettamente conservato. Ci sediamo all'interno per una breve sosta. Andrea scruta sopra le vette. Ci indica un branco di mufloni. La madre avverte la presenza di estranei, spinge i figli sotto un dirupo, poi esce allo scoperto. Fossimo bracconieri, spiega il pastore, seguiremmo la madre che fa da esca per salvare i figli.

Sopra le vette scorgiamo anche un avvoltoio alla ricerca di qualche pecora morta, un grifone dal volo ampio e regale. Riprendiamo il nostro cammino: dopo l'intrico della foresta lo spazio si apre improvvisamente davanti a un crepaccio immenso, la gola di Gorropu, incassata tra bastioni calcarei. La spaccatura della montagna pare un'orrenda ferita. Attorno volano alcuni rapaci che emettono strida acute, oltre la gola. E' sera ormai e la stanchezza, l'emozione, una misteriosa paura appesantiscono il passo. Soltanto cammina come uno stambecco. Ci conduce a un ovile. Incontriamo un vecchio pastore che ci offre la sua capanna.

L'architettura è antichissima: una base di pietra e un cono di fusti di ginepro; dentro, pelli di pecora, un fuoco di brace. Mauri mi dice di aver visto capanne uguali tra gli indios Oonas, nella Terra del Fuoco. II pastore, come tanti altri, è salito da Orgosolo per pascolare il gregge di pecore; qui trascorre giorni e giorni in solitudine. La Barbagia è anche questo vivere aspro, faticoso, arcaico. La piaga del banditismo, che qui trova il suo rifugio, nasce anche da questo mondo pastorale fermo a tempi preistorici. Si dorme.

L'indomani, all'alba, scopro che i due pastori hanno trascorso la notte all'aperto, accoccolati vicino al fuoco.

II Supramonte è immenso, senza respiro. L'esplorazione continua per un altro giorno. Boschi e pietraie, rocce e distese fiorite, silenzi profondi e gesti antichi, fuori del tempo.

E' di nuovo sera quando, come d'incanto, ci troviamo al punto di partenza. Sulla carta il pastore indica il percorso compiuto, in due giorni. Ritroviamo finalmente l'orientamento geografico. Ma ci sembra di aver trascorso un secolo. Due giorni sono sufficienti per scoprire un paradiso?

Scendiamo ad Orgosolo; Andrea ci offre da bere: Mi accorgo soltanto ora che per due giorni non ha toccato cibo. Ha succhiato un ramoscello di genziana.

Dal Supramonte al mare.

Da Dorgali si risale nuovamente al Supramonte; a Baunei una strada s'inerpica sull'altipiano, fino alla chiesetta di San Pietro, punto di riferimento per la gente del luogo. Da qui seguendo una delle tante vallate (« codule ») che incidono la Barbagia andiamo alla ricerca del mare. La codula di Sisine è incassata tra una foresta di felci, corbezzoli, lentischi; seguiamo un sentiero roccioso che s'innalza verso «campi solcati »; un allucinante paesaggio di coni, punte, triangoli di calcare bianchissimo; in mezzo ogni tanto spunta un ciuffo di mirto, di pancrazio, di cisto. Dalla distesa solitaria si leva un profumo acre di essenze. Sulla nostra testa stormi di rapaci, poiane, corvi imperiali, grifoni, gracchi corallini compiono voli silenziosi.

Dopo diverse ore di cammino, improvvisamente sbuchiamo sul mare. La costa è a picco; da terra la visione della vegetazione mediterranea tutta in fiore che digrada sulle calette bianche di arenaria fino a confondersi con lo smeraldo del mare riempie gli occhi Per ore il paesaggio che abbiamo avuto davanti è stato aspro e d'un tratto l'infinita dolcezza del mare ci colma di serenità. Mauri sale su un picco della costa; vi rimane seduto; per un'ora. Quando lo guardo gli occhi sono umidi. Forse è questo il modo di godere un ultimo paradiso.

Lungo il fiume.

Si ritorna al punto di partenza. Si aggrega a noi un gruppo di nuoresi speleologhi dilettanti. Ci inoltriamo nella codula di Luna, un'altra valle verdeggiante incisa nella roccia dallo scorrere millenario di un fiume, sommersa da foreste di ontani e lecci. La codula penetra dal mare fino all'interno del Supramonte. II tramonto ci sorprende all'improvviso; un attimo di smarrimento poi il belato di un gregge ci rassicura. Ci avviciniamo all'ovile; il pastore saluta e continua silenzioso il suo lavoro. Nessuno Io conosce. Ripone il gregge sotto capanne di frasche. L'ultimo agnellino è bloccato.

« E' malato », spiega. Di che cosa? « Del suo male », risponde. Lega l'animale e gli affonda sicuro la lama alla gola.

« Questo era il suo male mormora. — Vivere.» Mauri mi dice: « Vedi noi uomini civili: siamo indifferenti di fronte alla morte di un nostro simile, ma ci turbiamo davanti a quella di un animale. Noi abbiamo paura a tirare il collo a una gallina. Per questi pastori uccidere una pecora è un gesto naturale, è ancora un gesto di lavoro ». Il pastore scuoia l'agnello, lo infila in un ramo di ginepro sopra un ciocco scoppiettante. Si mangia, si beve, si parla fino a notte fonda. Racconti di banditi, di animali, di quando bruciò la foresta.

La Barbagia è anche questo.

Mauri non voleva più andarsene. Ma altri paradisi attendevano di essere scoperti.

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