Violato il sifone di Sa Oche – Su Bentu
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autore sconosciuto
Le carte topografiche della grotta Sa Oche - Su Bentu elaborate dal Gruppo Grotte Nuorese in svariati lustri di attività speleologica, riportavano un tratteggiato di circa 100 m per indicare una zona le cui estremità rilevate, una a Sa Oche, l'altra a Su Bentu, risultavano caratterizzate da due pozzi d'acqua costituenti un potente sifone di collegamento delle due cavità. I vari tentativi di forzamento effettuati a più riprese dal Gruppo Grotte Nuorese, fallirono per la precarietà delle apparecchiature subacquee e l'assillante incognita si radicò sempre più negli animi degli speleologi.
Il momento di conoscere la verità scaturì improvviso, fortuito dall'incontro fra due speleologi tedeschi e il presidente del Gruppo Grotte Nuorese ai primi del mese di agosto del 1972. Alexander Wunsch e Jochen Hasenmayer, appartenenti all'organizzazione speleologica Verein Deutscher Holen und Karstforscher di Nurtingen (Germania), sommozzatori di documentata fama europea, specialisti al superamento di sifoni carsici, vennero in Sardegna richiamati dalla vasta eco internazionale che va suscitando l'attività speleologica nell'isola.
Facemmo una breve rassegna dei sifoni conosciuti e inesplorati della Sardegna Centro-Orientale: “Su Gologone”, “Sa Oche - Su Bentu”, “Su Boe Marinu”, “Loccoli”, “Su Riu mortu”. Quello di Sa Oche - Su Bentu ci apparve più congeniale per chiari aspetti morfologici e idrogeologici e su di esso fissammo la nostra prima impresa comune.
Il Gruppo Grotte Nuorese venne parzialmente mobilitato a partecipazione volontaria. L'appuntamento coi colleghi tedeschi fu fissato per le otto del 5 agosto alle Sorgenti del Gologone. Scoprimmo gli ospiti accampati dal giorno precedente sulle fresche, ombrose rive del Cedrino, accanto agli oleandri in fiore.
Alexander ci venne incontro giulivo, all'insegna personale del Sole. All'insegna della Luna ci venne incontro Jochen, quasi nascosto dietro i grandi occhiali da miope, lasciando trasparire espressione di letizia. Irmtraut e Barbara, tedescamente gentili e naturalmente carine, affiancavano i loro mariti.
Simpatiche presentazioni e cordiali strette di mano: Paolo Verachi, Enzo Piras, Raimondo Gabbas, Claudio Chessa, Bruno Piredda, squadra di punta del Gruppo Grotte Nuorese.
Le prime intese linguistiche furono affrontate con un pessimo misto di italiano, tedesco, francese, inglese, spagnolo. Gradualmente ebbe spicco la migliore interpretazione del francese che assurge a lingua ufficiale per le fasi organizzativa ed esecutiva della delicata impresa comune, durante la quale ogni fraintesa avrebbe potuto causare spiacevoli, fatali pasticci.
Dopo un accurato, minuzioso controllo delle complesse apparecchiature, dal compressore d'aria, alle bombole, alle mute, ai numerosi strumenti, agli indumenti personali, ai bagagli, alle vettovaglie, ci inoltrammo nella valle di Lanaittu dove ci raggiunsero altri speleologi nuoresi cui si erano aggregati due soci della Lega Alpinistica Speleologica Empolese, Vincenzo Di Giacomo e Aldo Caramanna.
Sotto l'ampia arcata del portale d'ingresso a Sa Oche, al conteggio risultammo in 18, in numero più che sufficiente per sostenere l'assalto alla barriera liquida oppsta dall'inviolato sifone. Il compito di dirigere le operazioni, oneroso privilegio, fu affidato a Bruno Piredda.
Una squadra di 7 speleologi, guidata da Paolo Verachi, ebbe l'incarico di raggiungere il sifone dalla parte della grotta Su Bentu e puntarvi la maggior intensità luminosa possibile al fine di agevolare l'orientamento dei sommozzatori verso l'uscita
Una squadra di 8 speleologi comprendente i due colleghi tedeschi e le loro signore in appoggio morale, e quattro nuoresi fu destinata ad entrare in azione per il forzamento del sifone dalla parte di Sa Oche.
Tre uomini, validi in Gastronomia quanto in Speleologia, furono “sacrificati” all'esterno per allestire un prelibato pranzetto ristoratore.
Avviati ciascuno alacremente e diligentemente al proprio compito, durante la complessa fase dei preparativi, Bruno Piredda intraprese a raccontare:- “Qui 34 anni fa varai una zattera di barili indocili che mi avrebbe dovuto condurre a scoprire, facilmente, i reconditi segreti racchiusi nelle viscere della montagna.” Ma questa è un'altra storia.
Per uno scosceso sentiero di poche decine di metri scendiamo al lago Sa Oche. Le voci e i rumori rimbalzavano tra le pareti del grande antro mescolandosi in un lungo, cupo brontolio.
Gonfiano i battelli: ufff... profff... ufff... profff... ufff... profff... e l'eco rimbomba ufff... profff...ufff... profff.... Stiviamo più materiale che sia possibile.
Alexander e Jochen, già attrezzati a speleosub, si buttano in acqua per alleggerire il carico e nuotando avanti, sul fondo fino a 12 metri di profondità, saggiano l'efficienza delle loro apparecchiature. Superato agevolmente il primo lago arrampichiamo sul secondo, trascinandoci con attenzione, in brevi passamano, tutto il materiale. Dall'opposta sponda scendiamo per un angusto, scosceso passaggio al lago terminale che affonda le sue cupe acque in una grande scodella senza fondo.
Irmtraut e Barbara si sistemano in un alto cornicione panoramico dal quale possono dominare la scena. Jochen, già semi-sommerso in acqua, fa da porta sagola; il rocchetto di 100 metri di filo di ferro dolce zincato è assicurato al polso sinistro da un cinturino. Bruno Piredda ne controlla un capo che assicura ad una stalattite. Alexander è già in acqua e lancia i luminosi fasci di luce verso il fondo, scandagliando a vista il sifone, in attesa dell'immersione.
Raimondo Gabbas si diletta alla fotografia documentativa e i lampi di luce del flash rischiarano di tanto in tanto la scena che assume colore, vivacità e importanza.
Partono gli ultimi definitivi accordi, scanditi in lingua francese, e giù verso il fondo.
Scendono i due speleosub affiancati, accanto alla sagola metallica che traccia una luminosa scia per la via del sifone. Otto fasci di luce, quattro per casco, proiettano una tenue luce diafana che squarcia l'oscurità dell'acqua verso il fondo.
Nel controllare le sagome umane appaiono come ombre sospinte dalle pinne che si agitano freneticamente e decisamente sempre più giù, fino a lambire il grande arco di roccia verso l'ignoto.
Le acque del sifone tornano livide; cala il sipario sulla prima scena e contemporaneamente si schiude la seconda che giunge a noi percepita soltanto dai lievi strappi della sagola che avanza lentamente, decisamente. Poi, ad un tratto, cessa il contatto: sagola tesa, immota.
Nel più assoluto silenzio ci abbandoniamo a mille congetture e immaginazioni. Passano interminabili secondi di attesa ed ecco dal fondo emergere dapprima un tenue diffuso barlume antelucano che aumenta celermente di intensità come un'aurora repentina, poi abbagliano improvvise quattro lame di luce sotto il grande arco del sifone, seguendo la sagola metallica che riflette una scia luminosa verso di noi.
In un attimo riaffiora Alexander. È solo! Ci strugge il grande interrogativo del “perché”?
Ci spiega che Jochen è fermo al limite dei 100 metri di sagola in fondo al sifone; attende un supplemento di sagola, comunque sia di almeno 50 metri. Squarciamo i due battelli dei legacci che collegati non superano i 25 metri. Rischiamo di mandare a monte l'impresa per una bazzecola. Ma è il momento di osare. Alexander si rituffa e scompare velocemente sotto il tunnel. La sagola metallica ha leggeri colpetti, sussulti di contrazione e distensione; poi rientra in tensione ed è segno che si va avanti. Dopo un poco la sagola resta immobile, senza segnali. Passano i minuti di ansiosa attesa: 5-10-15. Finalmente notiamo giungere dal fondo quattro e quattro fasci di luce, ed ecco riaffiorare i due speleosub.
Jochen è riuscito a superare il sifone. È stato accolto trionfalmente dalla squadra di Paolo Verachi all'uscita del sifone verso la grotta del Vento. Lo hanno rinfrancato con un buon bicchiere di vino di Oliena e si hanno fatto raccontare brevemente...
(si interrompe)