Si! Al fiume!

 

Ci sono parole e frasi che ti colpiscono come fa uno schiaffo sul viso. Ce ne sono altre che come un tarlo scavano nei recessi della memoria e che, come i relitti di un naufragio, ritornano sulla superficie dei pensieri… inattesi quanto provvidi. Ogni naufragio della comprensione riporta quindi sulla battigia della speculazione, qualche piccolo tesoro. È lì e non aspetta altro che esser raccolto.

Sollecitato da alcune persone sull’opportunità di andare presso la Grotta de Su Bentu, Maurizio un giorno disse: per fare una spedizione devo avere un obiettivo, altrimenti non mi sento motivato.

Ecco il pensiero che dopo esser stato in balìa dei flutti elettrici del superego, per tanto tempo, riemerge imperioso e approda sospinto dai venti della coscienza nelle coste frastagliate dell’ego. Questo vento della coscienza ha un nome. Si chiama Marco R. e fa lo speleologo.

Marco R. è quello che a prima vista diresti essere un ragazzo o poco più, esile in apparenza, ma certo forte come una vecchia balestra volkswagen. E come questa un po’ curvo, non certo per l’età o la fatica, ma forse per ritrosia e timidezza. Capelli corti e basette pretenziose: unico vezzo nell’aspetto per altro modesto e dignitoso.

È cresciuto Marco dall’ultima volta che l’ho visto trasfigurato dall’argilla e dalla fatica dentro una tuta che a mala pena diresti: è rossa, e sotto un casco che pare solcato come certi campi di calcare. Serio e determinato come un soldato in missione vitale, al tempo strisciava a fatica nei remoti recessi del Carso nell’immota convinzione di arrivare al fiume: il Timavo. Era in quella occasione l’attore di se stesso in uno straordinario documentario intitolato: Alla ricerca del fiume nascosto prodotto dal National Geographic e diretto da Tullio Bernabei.

Siamo a Casola Valsenio per il raduno internazionale di speleologia: Bettina, Maurizio ed io. Il caso vuole che la nostra postazione espositiva sia quasi di rimpetto a quella della Società Adriatica di Speleologia. E mentre ci adopriamo per preparare il nostro spazio e renderlo fruibile ed elegante al pubblico numeroso, prima ancora di capire chi siano quelle persone che davanti a noi, come noi, si prodigano per raccontare al mondo con piglio orgoglioso la loro esperienza sotterranea, lo riconosco. Lieto quindi comincio ad osservarlo con discrezione come si fa quandoincontri un amico che non vedi da tanto tempo e gaio, per fargli una sorpresa, attendi che il suo sguardo si incroci col tuo. Non lo conosco Marco se non per aver ammirato la sua immarcescibile determinazione così ben descritta nel documentario. Ed è proprio quell’ammirazione frammista alla curiosità e allo spirito di emulazione che mi spinge a farlo: conoscerlo quindi. Colto perciò l’attimo di una pausa dell’opera di allestimento, sgombrato ogni riserbo e discrezione, mi presento e gli faccio i miei complimenti per il suo impegno. Un sorriso carico di compiacimento e velato di orgoglio giovanile che immantinente si desta sul suo viso delicato così apparentemente avulso dalla dura realtà fatta di anfratti e cunicoli, pozzi vertiginosi, acqua e venti impetuosi che dal ventre del Carso sconquassano qualunque cosa non sia ben salda alla roccia. Un attimo propizio. Solo un attimo per catturare il suo sguardo, stabilire una contatto e suggellarlo da una ferma e decisa stretta di mano e dalla rituale presentazione. Giusto il tempo quindi di salutarsi e rimandare, nei giorni a venire, a una più approfondita conversazione sulla speleologia e sulla spinta propulsiva che muove quella mente e quel corpo.

Basta leggere le brevi epigrafi sulle magliette per capire quale senso di appartenenza e quale fiero intento d’auto referenza anima quella variopinta e variegata moltitudine di frequentatori del mondo sotterraneo. Una sequela di motti che va dall’infrarosso della goliardia all’ultravioletto dell’indecenza. Come quella maglietta in vendita a 9 euro appena a lato della nostra postazione che raffigura l’anatomia dell’organo genitale femminile con tanto di vagina, tube e ovaie, mutuato con i luoghi reconditi di un inverosimile grotta, esplorato (sic!) da un improbabile speleologo che ha tutte le fattezze di un membro maschile e dai suoi sodali che nella progressione subiscono la mutazione di spermatozoi alla ricerca dell’obiettivo vitale: fecondare la grotta! Cagarissimo certo nell’immagine, ma prolifica (argh!) di analisi introspettiva quest’idea tutta maschile di possedere la grotta che è femmina e che in quanto tale è lì che aspetta di essere posseduta. E più profondo, certo totalmente estraneo dall’intendimento degli autori, l’archetipo della regressione temporale, quel ritornar spermatozoo e albergare in un luogo sicuro, ove niente e nessuno può disturbarti. La grotta. La grotta come il ventre materno!

Che dire poi del povero pipistrello riproposto in così tanti loghi da assurgere a icona fondante di buona parte del movimento ipogeo? Più che fondante… per esser buoni: ridondante. Per rendersene conto basta osservare quella nottola trasfigurata in pin_up ammiccante con tanto di chiappa rotondissima e tatuata in prima fila che, con una incredibile zampetta, si aggrappa ad un improbabile armo e con l’altra tiene un bottiglione di vino. O quell’altro con il muso che pare mutuato con l’Urlo di Munch e che è giustamente addobbato con tanto di casco ad acetilene e contenitore del carburo. Mi garba pensare che chi sceglie come simbolo della propria esperienza ipogea un pipistrello non lo faccia semplicemente perché l’animale alberga nelle avangrotte o perché avoca a se un fascino a un dipresso… diabolico, ma perché è un mammifero cieco che fa una tale fatica a volare, a causa del suo peso specifico sfavorevole, che il suo sangue raggiunge una temperatura oltremodo elevata a causa del calore prodotto nello sforzo. Perciò la natura ha abbinato alla funzione precipua delle sue ali quella di radiatore per il raffreddamento. La fatica nell’apparente leggerezza, sempre in lotta con la forza di gravità. La fatica quindi.

Ecco allora che un giro di giostra nelle mie sinapsi neuronali mi palesa due tratti distintivi dello speleologo: uno di ordine superiore: il ritorno nel ventre materno e uno inferiore… terra terra (mai il rafforzativo è stato più efficace!): la fatica. A questo punto tutte le connessioni remote del mio cerebro cominciano ad attivarsi dirigendo una lucifera consapevolezza al centro di un encefalico proscenio. Mi pare quasi di sentire l’eco della chiusura dei circuiti che attivano altrettanti proiettori, tutti puntati su una domanda definitiva: chi è in vero uno speleologo?

La curiosità amplificata da questa nuova consapevolezza mi spinge ad indagare più a fondo sulla questione. Quale occasione migliore, penso, potrei avere se non qui a Casola dove si sono radunati i più importanti rappresentanti della speleologia nazionale e sovranazionale? Comincio quindi a osservare con piglio deciso ciò che prima vedevo solamente e a connotare il mio nuovo intento speculativo di fattezza critica. Mi rendo conto immediatamente che non è una cosa facile soprattutto se il proposito è nobilitare la risposta, com’è nei miei migliori auspici, di rigore scientifico. C’è poi quella vocina interiore: << Ma che puoi saperne tu, modestissimo sp…le…go (neanche la vocina riesce ad attribuirmi quella qualità!), che hai visto due grotte più per caso che per vera intenzione?>>. La frustrazione pare prevaricare ogni mio intento contemplativo, tuttavia non demordo e decido di usare il rasoio di Occam. Ancora non so bene come, ma nel mentre affilo la lama intellettuale sulla roccia della determinazione. Ogni problema ha la sua soluzione… penso… ogni soluzione ha il suo problema. Si! Semplifica! Capovolgi la domanda: cosa lega tutte quelle persone che affollano le vie, le sale, i tendoni di Casola?

 

Scarpe

Le scarpe raccontano assai della persona che le indossa perché in una piccola superficie di pelle o stoffa si concentra il simulacro del suo approccio con il mondo. Quasi 2500 paia di scarpe la maggior parte delle quali tecniche o super tecniche! Proprio così: una buona parte di quella moltitudine indossa scarponi da guerra, concepiti per più per andare fuori strada che per calcare le superficie addomesticate dall’uomo con l’asfalto, il cemento o il grés porcellanato. E ne riconosci alcuni un po’ pretenziosi, extra ordinari nella foggia e nei colori o talmente grossi da parrer le calzature di Frankestein. Ma tant’è! Possibile che lo speleologo sia una persona che abitualmente indossa scarpe da campagna?

Vestiario

Da quando Adamo ed Eva han dovuto coprire le loro pudenda, tutti, più o meno consciamente, indossiamo una divisa. E come i soldati ne hanno una per il combattimento e una per la libera uscita, quel popolo ha una tuta per l’esplorazione e un abbigliamento tecnico per la vita di tutti i giorni. Si… perché sono tanti i visitatori di Casola che chissà da quanto tempo hanno dismesso le camicie di cotone, i maglioni di lana e i calzoni di velluto optando per gli efficientissimi e variopinti involucri di acrilico o similare. Possibile che lo speleologo sia una persona che solitamente indossa abiti tecnici?

Età

L’arco temporale di attività del popolo ipogeo è sorprendentemente ampio: va dai venti ai settantanni anche se il picco della curva di distribuzione dell’attività si attesta intorno ai trentacinque anni. Ciò è buono perché garantisce la trasmissione delle conoscenze e delle competenze e al contempo assicura il continuo ricambio generazionale. Nuove freschissime energie per continuare i vecchi progetti e affrontare i nuovi sul solco tracciato da chi ha preceduto. Possibile che lo speleologo sia una persona che affronterà le grotte sino a che il fisico reggerà?

Alcol

Mi piace pensare che l’ebbrezza dall’alcol dispensata sia solo un gradevole effetto collaterale e che invece la sua funzione sociale aggregante sia comunque prevalente. La grotta è un ambiente severo che, lo si voglia o no, si deve affrontare in gruppo. Ed è in gruppo che, nei momenti di pausa, si compie il rito della bevuta corale: quel bicchiere colmo che passa di mano in mano e di bocca in bocca diventa l’emblema della vicinanza tra persone, un modo piacevole di serrare i ranghi di un proficuo sodalizio. Persone come gli anelli di una catena. Tuttavia, a volte, le vie dell’eccesso sono lastricate di nobili intenti e qualcuno… eccede. Ho visto cose che voi umani non protreste immaginare … l’occasione era propizia e davvero pochi si sono privati di alterare alcolicamente il proprio stato. E lo han fatto con gusto e mal celato orgoglio...come quei distinti frequentatori di mondi sotterranei (cantine?) che parimenti vestiti si aggiravano con appeso al collo un recipiente di metallo, pronti a ghermirlo ad ognuna delle innumerevoli tappe che la beozia distribuiva con prodigalità inusitata. Possibile che lo speleologo sia una persona a cui piace bere?

Abilità e Competizione

Non c’è niente da fare. È più forte di qualsiasi tentazione. Mostrare alla costellazione di astanti appena inebetiti dall’alcol quanto siano forti e preparati. Perciò li vedi intenti a fare le gare a chi ce l’ha più lungo… il novero delle competenze tecniche e delle abilità fisiche ovviamente. La prova di ardimento preferita consiste nel girare attorno a una panca, in un efficace coniugio di forza ed equilibrio, senza toccare il terreno e che mi pare il surrogato di ben più significative gesta troppo a lungo confinate in un involucro di roccia. Possibile che lo speleologo sia una persona fortemente competitiva e appena vanitosa?

Trasgressione

La parola ben si adatta per identificare il motus animi imperante nel mondo ipogeo: andare oltre. Dal latino transgredi composto di trans=oltre + gredi= infinito di andare. Superare la linea di demarcazione tra la luce e il buio per esplorare l’ignoto è andare oltre la naturale tendenza alla quiescenza o almeno alla ripulsa del pericolo. Superata quella tante altre risulteranno risibili. E allora capita di vedere un gigante di quasi due metri vestito da donna succinta e smaccatamente provocante in un parossistico tripudio di calze a rete e giarrettiere, guepiere e tacco 12, borsetta e gioielli, parrucca e trucco non proprio leggero, aggirarsi tra la folla festante, compiacente anche se inorridita un poco. Un vero tripudio! Forse che lo speleologo sia una persona animata da un irrefrenabile spinta propulsiva ad andare oltre la placida e politicamente corretta via tracciata?

Orgoglio e fierezza

<< Se in questi giorni fosse atterrata un astronave e per un malaugurata traduzione delle coordinate Boaga_Gauss fosse capitata proprio a Casola Valsenio e avesse visto quella moltitudine di persone ebbre di affettuosa vicinanza e di qualche ben identificata sostanza naturale… ebbene, qualcuno avrebbe dovuto dire agli alieni venuti da una galassia remota per conoscere l’uomo: attenti quelli non sono umani, sono speleologi!>> Con questa frase volutamente spiritosa e celatamente canzonatoria (la maggior parte degli astanti, sopraffatto dalla testosteronica lusinga di sovrumana specialità, non si è nemmeno accorto della sottile ironia che essa porta seco!) ho concluso l’intervento di presentazione del progetto Su Bentu in 3D. Una disquisizione dei pro e dei contra dell’uso della scansione laser, preceduto dalla pacata ed efficace presentazione di Maurizio e dall’animosa e acribiosa prolusione di Paolo e Simone. Luogo: il cinema di Casola Valsenio. Un successo. Si! Un vero successo e il plauso di quel consesso che in quel frangente ci ha donato un udienza attenta e incuriosita oltremodo, empatica e solidale. Il Gruppo Grotte Nuorese può andar fiero del lavoro fatto, ho pensato, perché si è ancora una volta stagliato su un livello alto della ricerca e della comprensione del mondo ipogeo, nonostante le difficoltà e malgrado qualche detrattore tutto tronfio di indignazione farisaica: <<Questa non è speleologia!>> salvo poi ricredersi per saltare sul carro del vincitore.

Nessun vincitore invero e nessun perdente, ma un unico protagonista: il G.G.N. che con il suo enorme patrimonio di conoscenze, competenze e innovazione e l’impareggiabile novero di ricchezze umane e professionali, ha potuto interloquire da pari a pari con i migliori gruppi speleologici presenti al raduno. Questo marco nella dura madre dei miei pensieri con orgoglio e fierezza.

Siamo stati bravi.

Forse che lo speleologo sia una persona assai orgogliosa e fiera della sua opera?

Tutte questa domande continuavano a baluginare nel mio cervello nel tentativo di dare risposta alla domanda delle cento pistole: chi è lo speleologo?, quando mi sono ritrovato a parlare con Marco R. Ecco la sequela degli accadimenti.

<<Quasi quasi gli regalo la mappa della Grotta?>>

Mi riferivo a una delle tante che avevamo portato con noi e posto in vendita nella nostra postazione.

<<Si! Si! Vai e dagliela!>> Bettina di rimando.

<<Nooo… mi vergogno!>> Io.

<<Non fare che l’occasione vada perduta! Te ne pentirai. Se hai la palle… fallo e basta.>> Bettina.

Insomma prendo una mappa, mi reco nella vicina postazione della Società Adriatica di Speleologia e gli dono la mappa, porgendola con le entrambe le mani come si fa per i regali importanti. Ho sempre pensato che fare i regali sia molto meglio che riceverli, ma quella luce nei suoi occhi, miscellanea di sorpresa e gioia, mi rassicurano sul gradimento del pensiero. Il ghiaccio è rotto e da quel momento si svela una fiumana di storie, resoconti, aneddoti e curiosità di una giovane vita dedicata alla speleologia.

Marco R. ha soltanto un rene. L’altro gliel’ha spappolato una pietra che l’implacabile accelerazione di gravità ha reso soverchia sul disperato grido dell’impotente suo sodale: <<Pietra!>>. Appena il tempo di torcere il corpo nel tentativo di schivarla, ma è tutto inutile. Non mi racconta questo Marco. Conosco l’infausto accadimento perché l’ho appreso dal documentario e ad un mio timido accenno sui fatti, immediatamente mi accorgo della sua cordiale censura, frutto certo di riservatezza e intimo riserbo. Non indago oltre. Non è di questo che vuol parlare, ne di tutte le pinzillacchere e dei cazzabubboli che affastellano il policromo mondo della speleologia. È del Timavo che vuol parlare.

Il Timavo è il fiume più corto d’Italia: due chilometri dalla risorgiva di San Giovanni di Duino sino al golfo di Trieste ove sfocia. È un fiume multietnico: quasi due chilometri di corsa in territorio croato e, superato il confine, circa trentasette chilometri in territorio sloveno sino a sparire nelle grotte di San Canziano. È un fiume oscuro[1]: dal momento in cui sparisce a quello in cui riappare percorre circa quaranta chilometri nei remoti sotterranei carsici della Slovenia e dell’Italia. Ha un bel nome: la maggior parte degli studiosi sostengono derivi dall’idronimo Timavus e che la radice sia preromana: tim o tem vale a dire: acqua o mare. Altri sostengono che derivi dall’idronimo Timachus e che la radice sia dacia: tem vale a dire: oscurità. Altri ancora lo associano al teonimo Temavus che a sua volta deriverebbe dal nome della dea Temusio con radice tem già citata: cupezza, oscurità. Una dea non proprio rassicurante

 


 1 La parola oscuro deriva dal latino obscurus ed è composta di ob = innanzi con scurus = che non esiste

 

Per Marco non è un fiume: è il Fiume. Ne parla con un tale rispetto misto a timorosa deferenza da non lasciare alcun dubbio sulla sua rilevanza. Del resto generazioni di studiosi ed esploratori succedutisi nel tempo ne han fatto un icona della speleologia. Ecco quindi che con pacatezza frammista a fervore quasi mistico comincia a raccontare…

<<Oramai riusciamo a calcolare con certa precisione il tempo della piena e in quell’occasione, qualsiasi sia il momento propizio, ci rechiamo in quelle lande asperrime alla ricerca di fenditure del calcare ove sappiamo erutterà una grande quantità d’aria ad alta velocità. La grotta verticale nella quale stiamo ancora lavorando è stata scoperta così. All’inizio era solo un pertugio ora è un vero pozzo che per un bel tratto abbiamo tombinato con scatolari di conglomerato cementizio armato gettato in opera per renderne sicuro l’accesso. Una volta, come documentato nel film, abbiamo misurato un velocità di uscita dell’aria pari a circa 150 km/h! Il fenomeno è assimilabile a quello dello stantuffo: sale il livello del fiume e non sale tantissimo, tuttavia è sufficiente a comprimere l’aria contenuta in quelle che valutiamo essere grandi cavità. Non potendo sfogare altrimenti, come in una pentola a pressione, si incunea nei pozzi naturali, nelle fenditure e velocissima trova sfogo in superficie a più di 300 metri da dove è partita. Questo fenomeno condiziona il nostro modo di operare: una volta individuata una crepa promettente scaviamo nella speranza di trovare immediatamente un pozzo e un altro ancora sino ad arrivare al Fiume. Dove stiamo lavorando in questi anni, a parte il tratto iniziale, abbiamo avuto la fortuna di esplorare alcuni pozzi intervallati da brevi tratti orizzontali fino ad arrivare a una fenditura entro la quale non riuscivo a infilare neanche le dita. Ricordo che in concomitanza di una piena proprio lì ho assistito alla fuoriuscita di aria talmente veloce e potente che, avvicinata la mano d’istinto, in men che non si dica la mia tuta si è gonfiata come una mongolfiera e ha poi cominciato a sussultare come fa un drappo in balia del vento! A quel punto sembrava improponibile continuare pur sapendo quanto fosse promettente, tuttavia non ci siamo persi d’animo e abbiamo cominciato a spaccare la roccia con strumenti meccanici perché i manzi risultavano totalmente inefficaci e pian piano abbiamo aperto un varco. Bello grande perché a me piace muovermi con un certo agio e per fortuna dopo una decina di metri la nostra fatica è stata premiata con un tratto ampio oltre il quale stiamo ancora lavorando.>>

Marco è preso da quei racconti e io rapito. Un fiume in piena…mi verrebbe da pensare! Lo assecondo e invitato a raccontare qualche aneddoto straordinario, prosegue:

<<Un giorno stavamo lavorando alla base di un pozzo quando il mio compagno ha cominciato a sentirsi male e prima che la situazione sfuggisse di mano abbiamo deciso di rientrare. Allontanatici di un tratto però il colorito di Piero è via via tornato roseo e son tornate le forze che in quell’abisso pareva aver dissipato. È a quel punto che ci è venuto il sospetto: deve esserci qualcosa nell’aria… un veleno… strano però perché io mi sentivo bene. Abbiamo quindi deciso di tornare muniti di un rilevatore di gas e in quell’occasione abbiamo fatto una scoperta sorprendente: l’aria di quei luoghi aveva un contenuto di ossigeno bassa oltremodo, certo non sufficiente a garantire il corretto apporto ai polmoni. Ancora oggi non siamo in grado di spiegare la causa di tale anomalia, benché in tal tenzone si siano arrovellati anche studiosi di chiara fama. Farina per sacchi di dottoroni universitari e capolinea della nostra esplorazione!. Non proprio però. Il Fiume è lì …zzo! Non possiamo fermarci ora! Sai già com’è andata, ma mi piace raccontarlo perché è una di quelle cose di cui vado fiero: abbiamo comprato trecento metri di tubo corrugato da 20 cm di diametro, quello rosso che si usa per stendere cavidotti; pezzo per pezzo l’abbiamo via via calato e giuntato sino a raggiungere i fantasmatico luogo; abbiamo recuperato una pompa a chiocciola ad alta efficienza e messa in funzione abbiamo bonificato l’aria. Grazie a questo sistema possiamo lavorare tanquilli.>>

Una pausa per plaudire, manifestando ammirazione per la tenacia e l’abnegazione dimostrata, che lo invito a raccontare dell’effetto Bocher.

<<Che storia! Prende il nome dal suo scopritore, il mio compagno di viaggio ipogeo. Tutto è accaduto quando ci siamo infilati sottoterra nel bel mezzo di una piena del Fiume. Il mio sodale era avanti a me e, giunto in prossimità di un pozzo, ha urlato: “Via! Via! Il Fiume sta risalendo!” Tra tutte le cose che possono succedere dentro una grotta ce n’è una che terrorizza più di tutte: fare la fine del topo. Che fai allora? Scappi perbacco! Che altro? E così abbiam fatto. Percorso un tratto che abbiamo giudicato di salvaguardia, come la gazzella che a distanza di sicurezza osserva le mosse del leone, abbiamo cominciato a osservare quella che pareva acqua in ebollizione, guardinghi e pronti a scappare appena ci fossimo resi conto che il suo livello si stava sollevando. A questo punto dovete immaginare le condizioni al contorno di quella strana circostanza: acqua copiosa percolante dall’alto sulle pareti, vento forte proveniente dalle profondità e quel tubo d’acqua che si solleva, poi si abbassa e poi torna a salire… Ehi! Ma non è proprio acqua…più che altro sembra un’emulsione di acqua, fango e aria. Attento! Arriva! Ma no! Ricomincia a scendere! Insomma: abbiamo osservato quel fenomeno per un po’, pronti a schizzare come cavallette, sino a che abbiamo capito! Immaginate la bolla di un qualsiasi livello disposta in verticale e al posto della bolla immaginate quell’intruglio che si muove dall’alto verso il basso e viceversa: la forza di gravità vorrebbe sprofondarlo negli abissi, ma l’aria che cerca sfogo in superficie ne blocca l’azione e lo sospinge verso l’alto. Questo fa sino a che l’acqua discendente, che si allea con quella brodaglia, non gli da nuova forza sotto forma di peso, in maniera tale da vincere la spinta verso l’alto dell’aria. In quel turbinare parte di quell’acqua cola lungo le pareti sottostanti e la bolla si alleggerisce al punto da poter essere nuovamente risollevata. E così via sino a che uno dei due apporti cessa o diventa preponderante. Davvero curioso! In letteratura non abbiamo trovato niente di simile perciò possiamo ritenerci gli scopritori.>>

Il tempo scorre piacevolmente con Marco anche quando ci chiede del lavoro fatto a Su Bentu e pare davvero interessato perché, ci confessa, gli piacerebbe fare qualcosa di simile nella cavità basilare dell’Abisso del Trebiciano entro la quale scorre il Fiume. Intervistato infine sui motivi che lo spingono a impegnarsi in quel modo sorprendente, butta lì una frase apparentemente innocua, ma che mi colpisce con veemenza. Come uno schiaffo.

La frase: << A me delle stalattiti, delle stalagmiti, delle grandi sale interessa ben poco. IO DEVO ARRIVARE AL FIUME! Si! Al Fiume!>>

In un attimo tutto è chiaro e mi rendo conto di aver trovato la risposta alla domanda definitiva: chi è uno speleologo?

First law of caving
The caver is the woman or man who has one guiding cave and joins him, or does everything to achieve, over time, with the guidance of his own talent and the action of the own body.

 

I legge della speleologia

Lo speleologo è quella donna o quell’uomo che si prefigge un obiettivo speleologico e lo raggiunge, o fa di tutto per raggiungerlo, nel corso del tempo, con la guida del proprio ingegno e l’azione del proprio corpo.

Francis Macomber ph.d.

Second law of caving

Exists only the first

 

II legge della speleologia

Esiste solo la prima.

C. F. Kane

Le parole, come le idee che cercano di esprimere, hanno una storia che, pur bella o brutta, è comunque una storia ed è degna di esser raccontata. Ecco quindi la storia della parola chiave di tutto questo nostro disquisire sull’essenza dello speleologo: obiettivo.

Obiettivo significa letteralmente: ciò che appartiene all’obietto. La parola obietto deriva dal latino OBJECTUM ed è composta da OB: innanzi, verso e JÁCERE: gettare.

Mi sovviene allora un’immagine forte che è la metafora di tutto questo nostro andar per grotte, ma infine… di tutto questo nostro tribolare, ad ogni modo saldi nel convincimento di riuscire a conquistare la meta agognata: un armo tetragono e una corda gettata innanzi nell’oscurità verso un fiume da raggiungere.

 

Si! Al fiume!

….

È di qualche giorno una notizia: un gruppo di speleologi ha scoperto che il Tànaro, primo affluente del fiume Po’ che ne ha usurpato il nome (secondo la convenzione dei geografi un fiume prende i nome del più lungo dei suoi affluenti) ha un gemello sotterrano che ne fa di gran lunga il più importante della pianura padana. Ancora un fiume.

È di qualche tempo fa e resiste ancora oggi la convinzione di Jacheddu che il sistema de Su Gologone sia alimentato da un fiume sotterraneo che passa proprio sotto la Grotta de Su Bentu. Ancora un fiume.

 

Si! Al fiume!

….

Son tornato da Casola Valsenio con una convinzione e un auspicio.

La convinzione: il Gruppo Grotte Nuorese anche in occasione della realizzazione del Progetto 3D ha raggiunto il suo obiettivo speleologico. Grazie a tutti quelli che han partecipato secondo la propria dotazione quindi e in particolare a Maurizio, speleologo sino al midollo, senza il quale la via del successo sarebbe stata incerta.

L’auspicio: che tutti gli speleologici per essere veramente tali abbiano un fiume da raggiungere! Che possano averne anche uno di ordine superiore che li completi come donne e come uomini e che li renda veramente tali.

Dixi.

Nùgor 6 dicembre 2013

Giovanni Maria Tanda carpentiere specializzato


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